Un’alleanza fruttifera è quella che lega la biologia (o forse più precisamente l’etologia) alla letteratura. Chi è bravo a usar le parole può fare molto se riesce a dare corpo a metafore e allegorie che, come brillanti didascalie, sfruttano i comportamenti animali e le universali leggi della scienza. Se poi oltre ad usare bene le parole è un campione nell’arte del raccontare, se insomma è talentuoso fabulatore, alla fine il lettore rimarrà contento. Avrà letto un bel libro e avrà capito molto del genere umano (che prende a piene mai dai vari sottogeneri per definire il suo comportamento, i suoi difetti e le sue virtù).

Il piccolo prologo mi serve per introdurre un libro che di sicuro non fa parte dei long seller o dei classici dal momento che è appena arrivato in libreria. Sto parlando di La vita intima di Niccolò Ammaniti.

Due sono le ragioni per cui mi è venuta voglia di scriverne e uno invece è il motivo per cui non avrei dovuto parlarne in questo blog. Ovviamente la partita è finita in favore delle ragioni del sì per 2-1.

La prima ragione per cui mi è venuta voglia di scriverne è dovuta al ricordo di Umberto Eco. E precisamente del suo romanzo di maggior successo: Il nome della rosa. Per anni mi sono chiesto se sia stato davvero prevedibile il suo successo. Con il senno di poi non c’è dubbio: tanti gli elementi di sicura seduzione (anche per un pubblico largo) a iniziare dall’esotico – per l’epoca – ritorno al Medioevo e poi la parodia di Arthur Conan Doyle, e ancora poi la filosofia, il giallo “letterario” e quel basso continuo rappresentato da una costante ma mai troppo oppressiva erudizione che aiuta anche i lettori più disarmati ad andare avanti nella lettura. Però i primi che hanno letto quel dattiloscritto hanno davvero pensato che avrebbe venduto milioni di copie in tutto il mondo? Voi mi direte che c’entra questo con Ammaniti. Ebbene poco. Anzi quasi nulla. Però c’entra ogni volta che apriamo un nuovo libro il cui battage pubblicitario e le cui pile di copie accatastate alle entrate delle grandi librerie fanno pensare che potrebbe diventare un bestseller. Ho pensato ai curatori dell’Einaudi Stile Libero (Paolo Repetti, per citarne uno) che si sono trovati di fronte al testo originale di Ammaniti. Avranno creduto di avere un potenziale bestseller tra le mani?

Impossibile definire a priori il destino di un libro. Anche se è un buon libro. Anche se lo divoriamo in pochissimo tempo, sedotti dalla storia e blanditi dallo stile. Può non incontrare il gusto di tutti, può essere appassionante soltanto per pochi. Quindi mi sono messo a leggere fingendomi un editor alle prese con il dattiloscritto di un aspirante scrittore di successo. Di sicuro lo avrei pubblicato. Questo il verdetto. E magari avrei fatto di tutto affinché ottenesse un ottimo battage pubblicitario, mettendo sul mercato decine di migliaia di copie. Tuttavia, non mi sarei sentito certo del risultato.

La seconda ragione per cui mi è venuta voglia di scriverne è la sostanza stessa di questa recensione. Il romanzo, infatti, al di là della storia che racconta ci suggerisce garbatamente una visione del mondo, che ci troviamo a vivere, davvero illuminante. E lo fa proprio chiedendo aiuto all’etologia. È il Bruco, il personaggio più divertente e più misterioso del romanzo, a offrire la chiave di lettura adeguata. Impossibile però continuare con la seconda ragione senza fare un piccolo cenno alla storia raccontata. Il Bruco è il consigliere più ascoltato del premier, la cui moglie Maria Cristina, ex top model definita la donna più bella del mondo, è precipitata in un vortice romanzesco fatto di paure, inibizioni, ansie e rimorsi. Detto questo torniamo al Bruco. Il consigliere del presidente del Consiglio spiega a Maria Cristina (e a noi lettori) che esistono due tipi di esseri umani, propri come esistono due tipi di marmotte. C’è la marmotta ordinaria, che appena sente un pericolo si rifugia con tutte le sue simili dentro la tana e c’è la marmotta “sentinella” che avverte i pericoli laddove le altre non si accorgono di nulla e che rimane fuori dalla tana a fiutare l’aria e le potenziali minacce. Come queste marmotte ci sono individui che dormono meno (campando meno) ma che si rivelano necessari alla sopravvivenza della comunità. “Individui – spiega il Bruco – geneticamente portati a non accettare le verità imposte dall’Alto. Alla ricerca del pericolo occulto e del complotto, elaborano un’anti-narrazione che li porta a dubitare di ogni avvenimento che per gli altri funziona da collante collettivo”. Poi corri a perdifiato per altre 80 pagine fino ad arrivare al compimento del racconto. E ti accorgi che quelle parole sono illuminanti non solo per la storia in sé quanto per dare una chiave interpretativa del reale dove tutti siamo costretti tra due griglie di pensiero impermeabili tra loro (i positivisti e i complottisti). Non è, però, un romanzo sociale quello proposto da Ammaniti. È qualcosa di meglio: un romanzo esistenziale. Dove la protagonista si accorge soltanto alla fine delle sue peripezie che la vita, la vita quella autentica, va vissuta con slancio. Produrrà tanti dolori e l’esperienza porterà tante ferite e tante cadute, questo è vero,  ma offre altresì un dono magnifico e senza prezzo: la vita stessa.

Ora non mi resta altro che accennare brevemente al motivo per cui non avrei voluto parlarne. Si tratta del fatto che mi sono accorto – soprattutto sui social – che quello di Ammaniti è un testo “divisivo”. Tanti i suoi accesi estimatori, soprattutto tra le file dei suoi sodali, dei suoi amici e colleghi. Tanti, invece, si sentono infastiditi dall’accostare la parola letteratura a un testo secondo loro di puro intrattenimento. Non volevo entrare nella polemica. Non volevo farmi paladino di una o dell’altra squadra. Però questo timore sul piatto della bilancia ha perso la partita.

 

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