Il piroscafo di Zweig viaggia nel tempo
Non mi rassegnerò mai. La scomparsa di Stefen Zweig (Brasile, 1942) per me resta un mistero davvero insolubile. A differenza del suo collega Walter Benjamin, l’autore di Il mondo di ieri era riuscito a uscire dall’inferno dell’Europa durante la seconda guerra mondiale. Si era appunto lasciato alle spalle non solo il mondo della Vienna felix, ma aveva anche messo un oceano tra i suoi rimpianti e gli orrori del nazismo. La sua figura mi torna in mente ora che ho appena concluso di leggere La novella degli scacchi (nella pregevole traduzione offerta da Enrico Ganni per i tipi di Einaudi).
Prima di spiegare perché ho pensato alla morte di Zweig leggendo La novella degli scacchi sarà necessario ricordare di che si tratta. E’ un racconto lungo ambientato su un piroscafo partito da New York alla volta di Buenos Aires. A narrare la storia è un passeggero particolarmente attratto da un “vip” presente a bordo. Si tratta di Mirko Czentovic, proveniente da una remota regione orientale dell’Impero austroungarico. E la sua ignoranza e la sua indolenza sono pari soltanto al suo genio matematico e alla sua prodigiosa memoria. Qualità che gli consentono di vantare una terrificante imbattibilità alla scacchiera. Su un piroscafo però la noia si combatte anche sfidando un campione imbattibile e così accade che un gruppo di passeggeri appassionati del gioco sfidi il grande campione. Durante il gioco uno degli osservatori si tradisce dimostrando una padronanza della scacchiera fuori dal comune. Per il narratore, a questo punto, è proprio questo irrequieto osservatore a rappresentare il maggior interesse. In una pausa del gioco, questo passeggero (indicato solo con l’iniziale B) racconta della sua fuga dalla Vienna nazista, non prima di aver subito una tortura mostruosa: passare lunghissimi mesi in una stanza vuota senza poter fare nulla e veder nulla. Ed è qui che il prigioniero dei nazisti ha un colpo di fortuna: riesce a mettere le mani su un libro. Purtroppo per lui contiene solo numeri e cifre. Si tratta di un’antologia di 150 celebri partite a scacchi. E per evitare la pazzia impara a memoria proprio queste partite riuscendo anche a portare il suo estro al punto di giocare sfide immaginarie sdoppiandosi in due e basandosi soltanto sulla sua memoria visiva. Fino al punto di collassare. Quando il suo sistema nervoso cede i nazisti lo liberano. E lui fugge oltreoceano.
Non voglio però qui dire perché il testo è riconosciuto come un capolavoro. Sintetizzando basta sottolineare che il campione (del quale il narratore sottolinea l’ottusità e l’ignoranza) rappresenta il mondo freddo e calcolatore del progresso tecnologico mentre il fragile e ipersensibile “B” è il rappresentante di una società al tramonto. Una società che ha fatto della cultura il sostegno dell’anima e quindi il carburante primo di un progresso umanistico che ad Auschwitz ha mostrato di non poter più andare avanti.
In una delle pagine finali del racconto B rivela che sono più di vent’anni che non gioca a scacchi. Insomma che sono passati più d vent’anni dal momento in cui il Nazismo fagocitava Austria e Boemia. Ed è a quel punto che mi sono messo a mettere insieme le date e i riferimenti temporali. Zweig ha scritto questa storia nel 1941. Un anno prima della sua prematura scomparsa (muore suicida in Brasile). E l’invasione tedesca della Boemia è del marzo 1939. E “B” dice che il suo rilascio (era tenuto prigioniero in un albergo viennese) avviene proprio nel periodo di quell’annessione. B confessa al narratore che dopo aver recuperato forze e libertà non ha più osato toccare una scacchiera e che da allora sono passati oltre vent’anni. Quindi la sfida tra i passeggeri del piroscafo e Czentovic è per forza collocabile ai primi anni Sessanta.
Zweig offre una straordinaria critica del nazismo non tanto nel metodo di tortura usata dalla Gestapo a Vienna, quanto nell’apparente mancanza di sensibilità di un “macchina infallibile” che soltanto all’anagrafe risponde al nome di Mirki Czentovic. E fa qualcosa di ancor più clamoroso: ci indica un mondo futuro che lui non riuscirà a conoscere ma che prefigura con inquietante precisione: il mondo di chi porta i segni della fragilità e della debolezza che la disumanità del nazismo e della seconda guerra mondiale ha dato come pesantissima eredità a milioni di sopravvissuti all’Olocausto.