Ci sono libri nati per supportare un’idea. Nel nostro caso un’idea decisamente robusta: la lingua come più prezioso strumento per riconoscersi e per raccontare il mondo. Ci sono libri che si distinguono per l’amorevole sapienza con cui l’autore racconta di sé e della nascita della sua vocazione di scrittore. E ci sono infine libri che restituiscono al meglio il sapore di un epoca attraverso le testimonianze piene di nostalgia raccolte nelle sue pagine. Si può scegliere quale tipo di libro si vuole prendere in mano. Nel caso, però, si sia indecisi e, come di fronte a una vetrina piena di invitanti dolci, si voglia gridare: “li voglio tutti!”, ecco che ci si può indirizzare su La lingua salvata di Elias Canetti (1905-1994).  Paghi uno e prendi tre, come nelle migliori e più convincenti pubblicità commerciali.

Il libro (in questo caso l’edizione Adelphi con la traduzione di Amina Pandolfi e Renata Colorni) è il primo capitolo di una trilogia (composta da altri due volumi Il frutto del fuoco e Il gioco degli occhi) attraverso la quale Canetti, futuro premio Nobel, ha voluto dare una forma definitiva al suo mondo e alla sua storia. 

La lingua salvata racconta la storia della famiglia Canetti, commercianti di antica origine spagnola emigrati in Bulgaria. Ci vuole ovviamente lo sguardo ingenuo e stupito del piccolo Elias per offrire al lettore un quadro dai colori vividi e autentici non solo dell’ambiente ristretto e primitivo  in cui l’autore cresce ma anche delle potenzialità offerte dalla natura cosmopolita della sua famiglia. Uno spazio senza dubbio di primo piano viene concesso alle figure dei genitori di Canetti. Una coppia felice, legatasi negli anni viennesi dell’università. La loro lingua, la lingua dell’amore, è ovviamente il tedesco. La lingua del Burgtheater della capitale austriaca, del quale erano appassionati frequentatori.

Il resoconto storico si arricchisce quindi di una dimensione intimistica e personale, dove la passione per la lettura e la scrittura deve molto all’affetto dei genitori, soprattutto alla figura della madre che svilupperà con Elias un rapporto di forte dipendenza emotiva, alternando devozione e gelosia. L’attenzione alla parola e alle lingue della sua vita offre una naturale via d’interpretazione alla propria storia, colma di idiomi e suoni provenienti da ogni parte del mondo. Ma lasciamolo dire allo stesso Canetti: “Solo nella nostra città si parlavano sette o otto lingue diverse e tutti capivano qualcosa di ciascuna; soltanto le ragazzine che venivano dai villaggi non sapevano che il bulgaro e per questo erano considerate stupide. Ognuno enumerava le lingue che conosceva: era importante padroneggiarne parecchie, con la conoscenza delle lingue si poteva salvare la propria esistenza e quella altrui”. Nel caso del piccolo Elias le lingue erano il bulgaro della sua infanzia, l’ebraico della sua famiglia proveniente dalla Spagna e transitata dalla Turchia. Quindi ovviamente la lingua turca presente con vocaboli e modi di dire nel fascinoso spagnolo parlato dai suoi nonni. Quindi il tedesco, la lingua del teatro e dell’amore dei suoi genitori, l’inglese della libertà conquistata a Manchester e il francese della cultura (Baudelaire e Racine).

Questo è un classico romanzo di formazione ma anche la storia della propria ricerca di identità che passa prima di tutto attraverso la lingua/le lingue con le quali il protagonista si rivolge alla madre, con le quali studia, cresce e si sviluppa, fa le esperienze con gli altri bambini a scuola, legge. Il trasferimento in Inghilterra, a Manchester, e in seguito i lunghi periodi trascorsi in Austria e in Svizzera lo obbligheranno a scegliere fra le lingue che padroneggia: sarà il tedesco la lingua con cui scrive e attraverso la quale si forma culturalmente.

Proprio alla fine del libro, però, l’autore descrive l’incontro del giovane collegiale (in Svizzera) con la madre (reduce da un lungo periodo in un sanatorio in Austria). Proprio quella madre, che l’aveva spinto a studiare e a entrare con entusiasmo nel mondo dei libri e della letteratura (consolidando quel poliglottismo che è  da sempre la cifra della sua famiglia), si rende artefice di un colpo di scena. Trovandolo intento a leggere un racconto popolare svizzero sul maligno, lo esorta a non pascersi di sogni letterari e di non cullarsi nel dorato paradiso dei romanzi e dei racconti popolari. La vita è un’altra cosa rispetto alla letteratura. Secondo la madre, Elias deve sporcarsi le mani, prendersi delle responsabilità, affrontare la vita reale e non vivere attraverso i libri e le parole. Perché un uomo soddisfatto – spiega – non va oltre, non cresce. Si ferma dove si trova. E nel suo caso quel traguardo sono appunto i libri e il paradiso che proprio quei libri che hanno edificato. Elias Canetti, lo sappiamo, non entrerà mai nel campo del commercio come il padre e i suoi zii. Resterà fedele alla sua vocazione e alle sue inclinazioni. Gli resteranno, però, per sempre stampato a chiare lettere nella sua memoria le parole della madre. Contro le quali combatterà per tutta la vita per dire: non sono soddisfatto, dei libri e delle loro storie non sarò mai pago. Proprio come il goloso che in una pasticceria sa che non si fermerà mai, nonostante i moniti della madre e di chi ha a cuore la sua salute.

 

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