Ho appena finito di leggere L’uomo senza qualità nella vecchia edizione Einaudi (con la splendida traduzione di Anita Rho). Era da tanto che mi ripromettevo di colmare questo gap. D’altronde il romanzo di Robert Musil è definito un classico del Novecento, una delle opere più importanti della letteratura mondiale, frutto del lavoro di un’intera vita proprio come lo sono stati l’Ulisse di Joyce e Alla ricerca del tempo perduto di Proust.

Mi limito qui a dire che questa lettura è stata un’impresa davvero faticosa. Ben più stancante dell’Ulisse e senz’altro meno seduttiva del romanzo di Proust. Qui manca l’irriverenza e il funambolismo lessicale di Joyce, ma anche la capacità di restituirci quadri sociali dettagliatissimi che affollano le pagine della Recherche con affascinante leggerezza. Musil ci propone, invece, un racconto filosofico. Gli preme offrirci un personaggio che non abbia interessi materiali. Non lavora, infatti, ma vive di stimoli culturali e politici. Siamo alla vigilia della Grande guerra. In un’Austria felix ancora per poco, che Musil, forse per pudore, trasforma nel regno di Cacania. Qui il nostro Urlich (questo il nome del protagonista) segue processi di omicidi seriali, visita manicomi, partecipa a comitati celebrativi della grandeur imperiale e discetta con l’amante e con la sorella di amore (anche incestuoso). La sua vita è sostanzialmente grigia ma la densità dei ragionamenti filosofici e la forza espressiva delle descrizioni che Musil ci propone ne fanno comunque una vetta davvero alta ma comunque da scalare almeno una volta nella vita. Si arriverà in cima senza fiato e senza forze. E proprio sul filo del traguardo – come accade al maratoneta della domenica – ci si dirà che un simile sforzo non lo si ripeterà mai più. A lungo andare però vince la memoria positiva. La soddisfazione resta, la stanchezza si dimentica. Come per Musil.

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