Nel parlare di un romanzo o nel recensire un testo letterario raramente si usano espressioni di ammirazione. Spesso si considera sufficiente l’apprezzamento. Il perché è presto detto. L’ammirazione ci mette in una prospettiva di subalternità nei confronti dell’autore mentre l’apprezzamento è più un riconoscimento di qualità, che spesso si elargisce da pari a pari. A mia memoria non ricordo un testo critico dove l’esegeta usi l’espressione  “nutro per questo testo e per il suo autore una profonda ammirazione”. Dopo la lettura di Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar (Einaudi, con la pregevole traduzione di Lidia Storoni Mazzolani) la prima sensazione che mi assale è l’urgenza di esprimere la più profonda ammirazione per chi è stato capace di pensare e realizzare un testo come questo.

Il celebre romanzo dedicato alla vita e al mondo interiore dell’imperatore Adriano stazionava indisturbato nella mia libreria da più di un quarto di secolo (lo comprai ancora a metà anni Novanta in una libreria di Udine). Lettura che già allora reputavo necessaria ma che, per un motivo o per l’altro, ho sempre rimandato. Fin quando non mi sono imbattuto pochi mesi fa nel romanzo di Eugenio Murrali Marguerite è stata qui (Neri Pozza). Il passaggio al romanzo su Adriano è stato automatico. E ne sono debitore proprio agli stimoli di Murrali.

Fin dalle prime pagine il romanzo della Yourcenar mi colpisce per la sua sottile eleganza e per la sua profondità. Una scrittrice che si impadronisce della voce di un celebre uomo d’azione per farne un campione del pensiero “moderno” non è una cosa frequente. Nei suoi taccuini, poi, la scrittrice rivela: “Ai tempi nostri il romanzo storico non può essere che immerso in un tempo ritrovato: la presa di possesso di un mondo interiore”. Per spiegare meglio il suo ragionamento la scrittrice fa una banale constatazione: “La vita di mio padre la conosco meno di quella di Adriano”.

Dicevamo dell’ammirazione. Come si può rimanere se non a bocca aperta di fronte a passaggi come l’incipit del capitolo in cui Adriano diventa imperatore. “Il mondo che avevo ereditato somigliava a un uomo nel fiore degli anni, ancora robusto, nel quale però l’occhio del medico scorge indizi impercettibili di logorio, come chi è appena uscito dagli spasimi d’una malattia grave”. La Yourcenar si impadronisce della maschera dell’imperatore romano per tentarne una riproduzione moderna che valga la pena raccontare e soprattutto della quale valga la pena ascoltare i monologhi interiori. L’ammirazione non è soltanto l’entusiasta accoglienza di un testo impossibile da riprodurre se non sei un grande scrittore e soprattutto un grande lettore e studioso. L’ammirazione è anche per l’eleganza con cui la memoria dell’imperatore scorre su fatti, luoghi, persone e personaggi della storia di Roma. La Yourcenar padroneggia un materiale davvero notevole e riesce ad animare non solo quel volto ieratico (che nessuno di noi riuscirà a non identificare con quello di Giorgio Albertazzi che ha portata il testo a teatro in una celebre quanto fortunata riduzione) ma anche i suoi pensieri. Modernizzandoli e arricchendoli anche con quella saggezza pratica tipica dell’altra metà del cielo. Come quando il vecchio Adriano dà ordine di erigere un monumento funebre al suo amato Antinoo. “Alessandro aveva celebrato le esequie di Efestio con devastazioni ed eccidi; mi sembrava più bello offrire al mio prediletto una città dove il suo culto sarebbe stato associato per sempre all’andirivieni di una pubblica piazza, dove il suo nome sarebbe tornato nelle conversazioni, ogni sera”.

Questo imperatore probabilmente non è fedele al personaggio storico, ma quanto è affascinante! E quanto risponde alle esigenze dei lettori moderni. Quanto è consolatorio il suo commento sulla figura del “servitore dello Stato”! “Noi siamo funzionari dello Stato, non siamo Cesari – fa dire la Yourcenar ad Adriano – Aveva ragione quella postulante, che m’ero rifiutato un giorno di ascoltare fino alla fine, quando esclamò che se mi mancava il tempo per darle retta, mi mancava il tempo per regnare”.

Ammirare significa ammettere di non riuscire a mettere insieme in una patchwork di assoluta armonia citazioni da testi tramandati, ricostruzioni fedeli e dialoghi immaginari ma aderenti alla psicologia dei personaggi. Ed è da qui che, tra l’altro, il pragmatismo della prima donna a entrare all’Académie française riconosce la sua incapacità a mettere una donna al centro della scena. E infatti nei suoi taccuini spiega: “Impossibile prendere per figura centrale un personaggio femminile; porre, ad esempio, come asse del racconto, anziché Adriano, Plotina. La vita delle donne è troppo limitata o troppo segreta. Se una donna parla di sé, il primo rimprovero che le si farà è di non essere più una donna”.

Una scrittrice fuori dal comune. Un’autrice che non è seconda a nessun campione della letteratura mondiale. Eppure, come confessa nei suoi taccuini, a farla innamorare di Adriano e a farla incatenare nella sfida di ricostruire il suo mondo interiore è stato Gustave Flaubert. Che in una lettera della sua corrispondenza (tanto compulsata dalla Yourcenar) scrive: “Quando gli dèi non c’erano più e Cristo non ancora, tra Cicerone e Marc’Aurelio, c’è stato un momento unico in cui è esistito l’uomo, solo”. E da lì è partita l’autrice di Memorie di Adriano: “Avrei trascorso una gran parte della mia vita a cercar di definire, e poi descrivere, quest’uomo solo e, d’altro canto, legato a tutto”.

Alla fine, la definizione che la stessa scrittrice offre del suo lavoro dà un’idea precisa delle sue ambizioni: Le Memorie sono “l’immagine di un uomo che delle sue virtù e dei suoi difetti, delle sue esperienze personali e della sua cultura poco a poco si compone una sorta di saggezza pragmatica d’amministratore e di principe”. E l’ammirazione quindi riguarda anche la sua attualità. Perché un simile testo non smetterà mai di essere moderno e non smetterà mai i panni del classico”.

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