Cronaca felice di una infelice catastrofe
Non so se vi capita. A me succede spesso negli ultimi anni. Guardo a quello che succede e vi vedo segni ed epifanie del tramonto di un’epoca. Difficile avere uno sguardo da “storico” quando si è testimoni contemporanei. Accade, però, che il cronista lasci il posto allo “storico” intuendo passaggi epocali. Negli ultimi anni avevo pensato, come un passaggio epocale, al covid. Così come allo scoppio della guerra in Ucraina e alla reintroduzione dei dazi. Leggendo La cripta dei cappuccini di Joseph Roth (nell’edizione Adelphi tradotta da Laura Terreni) mi sono imbattuto in un personaggio – il protagonista – che sembra accorgersi del passaggio epocale e che sceglie di salvare il salvabile come può. Francesco Ferdinando Trotta vive gli anni della giovinezza spensierata nel tramonto dell’Austria imperiale. E dopo la Grande guerra si accorge che quella spensieratezza non era soltanto un dato della sua età anagrafica ma anche una connotazione dell’epoca, ormai finita irrimediabilmente e per sempre.
Leggere oggi questo meraviglioso romanzo di Roth (scritto all’indomani delle manifestazioni di operai nel 1932 soffocate nel sangue dal cancelliere austriaco Engelbert Dollfuss, momento appunto che Roth considerava la fine di un’epoca e l’inizio di una nuova) mentre il mondo discute sulla reintroduzione dei dazi e mentre la Russia minaccia di allargare il conflitto con l’Ucraina è una pratica utile e virtuosa (oltre che estremamente piacevole). Ci suggerisce di guardare con un occhio disincantato il nostro benessere e di prestare adeguata attenzione alle spie minacciose di un futuro comunque impossibile da prevedere.
Alla fine del primo conflitto mondiale il narratore del romanzo pone un punto fermo perché, dice, la grande guerra è “mondiale non già perché l’ha fatta tutto il mondo, ma perché noi tutti, in seguito ad essa, abbiamo perduto il nostro mondo”. Lo scrittore che si accolla il gravoso compito di segnalare un cambio di passo e un passaggio generazionale o epocale corre, però, il fondato rischio di non farsi capire. In questo caso la confessione del narratore/Roth è esemplare. “Accetto di buon grado – scrive a proposito del periodo che il protagonista passa in un campo di prigionia in Russia nelle fasi finali del conflitto – il destino di essere un dimenticato ma non quello di diventare il narratore dimenticato. A stento ancora mi si capirebbe se per esempio al giorno d’oggi mi arrischiassi a parlare della libertà, dell’onore, figuriamoci poi della prigionia. Io scrivo unicamente allo scopo di chiarirmi a me stesso e anche pro nomine Dei, per così dire”.
Facile leggere un romanzo come La cripta dei cappuccini e parlare di finis Austriae e di tramonto di un’epoca. Facile anche suggerire parallelismi col presente (memorabile il momento in cui il protagonista ricorda la figura del suo amico caldarrostaio che sotto l’impero portava le sue castagne in giro senza problemi mentre con la fine di quel mondo è costretto a munirsi di passaporto e permessi), difficile semmai scrivere da testimoni di un’epoca in via di dissoluzione. Ed è forse questo aspetto che rende ancora più meritevole il lavoro di Roth (che era fuggito dalla sua Austria “nazificata” per riparare da esule in Francia).
Lui è riuscito non solo a mettere nella giusta prospettiva il passaggio delle epoche ma ha anche capito qual è uno degli effetti più drammatici della guerra ovvero: svelare le responsabilità dei singoli e le inettitudini collettive che combinate insieme sono sempre alla base della morte di una civiltà.