Medici bravi o medici «buoni»?
I medici devono essere bravi e, su questo, non ci piove. Ma mi (e vi) chiedo: un medico deve essere anche «buono»? Quando ero piccola e andavo dal medico generico, trovavo, al di là della scrivania, armato di penna e di ricettario, un signore distinto, col camice bianco, che col suo modo di fare, il suo stile e la sua informalità metteva me e mia mamma a pieno agio. Oggi, si discute della crisi del rapporto individuale medico-paziente. Un problema da non sottovalutare. Certo, il medico deve prima di tutto trovare la cura per guarire il suo paziente. Ma, il modello «dottor House» è quello giusto? Quando si è alle prese con malati di tumore, non sempre oncologi e infermieri riescono a gestire al meglio il rapporto umano non solo con gli ammalati, ma anche con i loro parenti. Di recente, è stata inaugurata, al Dipartimento di Oncologia della Statale di Milano, la cattedra di «Umanizzazione delle cure»; la materia universitaria punta ad educare il futuro medico ad avere la percezione dell’essere umano in toto con tutte le sue esigenze e le sue necessità non solo fisiche, ma anche psicologiche, offrendogli anche un sostegno durante la terapia di malattie gravi come il tumore. Il tutto, partendo dalla convinzione che, in alcuni casi, tra medico e paziente funzionino meglio le parole di una pillola. «Un buon medico non deve solo fare diagnosi corrette e indicare le cure giuste. Deve anche saper parlare ai pazienti, capire la sofferenza e avere la capacità di ascoltare», ha spiegato all’Ansa la dottoressa Gabriella Pravettoni, docente di Psicologia dei processi decisionali dell’Università degli studi e direttore dell’unità di Psicologia dello Ieo (l’Istituto Europeo di Oncologia di Milano). «Obiettivo di tale Cattedra di Umanizzazione è appunto questo: contribuire alla formazione di una nuova generazione di medici e oncologi che, oltre alle competenze diagnostiche e di trattamento, siano dotati della necessaria capacità di ascolto e di relazione profonda con il paziente nella sua dimensione esistenziale, emotiva e sociale». Anche il professor Luigi Tesio, un medico che nella sua carriera ha attraversato tutte le tappe della professione, partendo da quella di medico mutualista fino a diventare specialista in medicina fisica e riabilitativa, nonché ricercatore, si è interrogato rispetto ai bisogni e alle domande reali della popolazione nel settore sanitario, facendo emergere che tutta la medicina clinica, fondata sulla relazione biunivoca tra paziente e medico, è stata messa in seria discussione. L’analisi precisa della questione è descritta nel suo recente volume I bravi e i buoni. Perché la medicina clinica può essere una scienza, dove Tesio parla degli evidenti segnali di crisi, anzi di vero e proprio declino partendo dal concetto che il clinico, sentendosi inadeguato, frustrato da oppressione burocratica e deresponsabilizzato dalla «dittatura delle linee guida», perda prestigio. E il paziente perde il curante. Oggi siamo tutti ridotti a standard e «medie». Siamo diventati dei numeri. E’ vero anche che, rispetto a 30 anni fa, esistono altri tipi di patologie, più gravi e diffuse, e gli approcci devono essere nettamente più scientifici. Ogni tanto, mi capita di raccogliere lo sfogo di qualche lettore anziano che lamenta la mancanza di tatto del suo medico curante. Ma se, alla fine, si viene guariti, è così importante che il dottore sia anche «buono»?