[photopress:mar3.jpg,full,alignleft]La notizia purtroppo è nota. L’hanno battuta ieri le agenzie di stampa e oggi era sui giornali: nella maratona di Detroit ci sono stati tre morti. Una sequenza allucinante che in sedici minuti ha lasciato sull’asfalto tre atleti di 26, 36 e 65 anni. Poco importa come si chiamavano, conta il fatto non ci sono più. Uno dei tre era alla sua cinquantesima maratona, un altro era passato alla <mezza> in meno di due ore, dell’ultimo si sa solo che è crollato al diciottesimo chilometro. Ora, qual è il punto? Il punto sono i controlli medici ma non solo quelli. Nelle gare americane si può correre senza certificato e questo è un rischio vero. E’ sufficiente  avere 18 anni compiuti,  aver  firmato una dichiarazione di scarico responsabilità per l’organizzazione prima del via e ti danno un pettorale. In Italia fortunatamente non funziona così. Ma spesso non basta ad evitare tragedie. Negli ultimi anni, da quando la maratona è  diventata una moda, il numero delle persone che ci prova è esponenzialmente aumentato. Non dico che ci si improvvisi ma spesso vedo gente che arriva a fare sport non più giovanissima, magari  solo per perdere un po’ di pancetta, poi ci prende gusto e osa sempre di più. La differenza con chi è abituato a fare sport agonistico da <piccolo> non è solo culturale, credo sia tutta nella capacità di capire quale è il limite e quali sono i segnali che ti invia il tuo fisico quando è sotto sforzo.  Vedo gente che esagera per limare un minuto al suo tempo, vedo gente che non capisce quando è arrivato il momento di mollare, ho visto gente mandare giù bustine di Aulin nel bel mezzo di una maratona perchè aveva male alle gambe… Certo è meglio correre una maratona dopo aver fatto una visita medico agonistica. Ma un certificato non è il lasciapassare verso l’immortalità.