Il maratoneta rotto
Ci sono storie che sembrano fatte apposta per raccontare un inizio. Anche un inizio d’anno. Per spiegare che quando ci si mette in testa di fare una cosa, di azzardare un’avventura non sempre tutto va come si è immaginato e non sempre i conti sono quelli che abbiamo incolonnato all’inzio. Sulla carta. Per spiegare che nello sport spesso non vince chi arriva primo, non chi fa il crono migliore o chi mette al collo medaglie. Ci sono storie che raccontano la tenacia, il sacrificio, la voglia di non arrendersi alle prime difficoltà, ma anche alle seconde, alle terze. Ci sono storie che spiegano come una sfida, una corsa, una maratona possano improvvisamente diventare qualcos’altro, imprese che magari non finiscono sulle prime pagine dei giornali sportivi ma che, per un’inspiegabile alchimia, si consegnano alla storia. Patrimonio della gente comune che , come accadeva nel mito greco, si tramandano nei racconti. E la vicenda di John Stephen Akhwari, atleta della Tanzania che nel 1968 arrivò al traguardo della maratona olimpica a Città del Messico sta lì a testimoniare come si possa entrare nella storia anche senza essere mai saliti su un podio. Come si possa pur non avendo vinto nulla riceve la medaglia d’onore come eroe nazionale del suo paese che a suo nome ha addirittura fondato John Stephen Akhwari Athletic Foundation, un’organizzazione che appoggia la formazione e l’allenamento degli atleti tanzaniani per farli partecipare nei Giochi Olimpici. E’ il pomeriggio del 20 ottobre quando stanno per calare sole e sipario sulla XIX edizione dei Giochi . Come sempre con la maratona. Finita la cerimonia di chiusura gli spettatori ed i partecipanti cominciano ad abbandonare lo stadio olimpico quando con il numero 36 entra nel tunnel Stephne Akhwari pastore africano, padre di 12 figli e modesto maratoneta. Davanti agli sguardi increduli di chi si è attardato sugli spalti, inizia il suo ultimo giro di pista. Pochi forse si rendono conto di chi sia esattamente, anche perchè la maratona è finita dal più di un’ora, già è stato ufficializzato l’ordine d’arrivo, già è stata fatta la premiazione con inni e bandiere e Wolde, Kimihara e Ryan, oro, argento e bronzo, sono già sulla via dei loro alberghi. Ma parte un’ovazione spontanea per il più malconcio maratoneta che una maratona olimpica consegni alle poche telecamere rimaste sul prato dell’olimpico. E così gli operatori, senza sapere neppure chi sia, cominciano a riprenderlo. Ne avevano visti di maratoneti disidratati, deliranti, trascinati via o sostenuti a braccia, distesi su una barella, tremanti o bollenti. Da sempre la maratona aveva consegnato le immagini di rese drammatiche, di ritiri e bandiere bianche. Ma come quell’africano con il viso sfigurato da una smorfia di fatica mai, con il sangue che gli si è seccato addosso, con un ginocchio, il destro, fasciato alla bene e meglio, con una spalla fratturata che non riesce a tenere dritta e gli trascina verso il basso anche il capo. E Va avanti. Spingendo la gamba sinistra e trascinandosi quella destra che sembra quasi disarticolata, a stento misurando i passi per il timore di cadere. Per paura di cadere di nuovo come gli era capitato al 19 chilometro quando urtando altri due atleti è rovinato sull’asfalto rompendosi in pezzi. Un dolore atroce, da togliere volontà e fiato che, da quelle parti ad oltre 2 mila metri di altitudine, è già pochissimo. Però va. Pretende di finire gli ultimi 400 metri del suo giro olimpico. Pretende di fare ciò che hanno fatto gli altri. Il pubblico si ricompatta. Prima distratto poi sempre più attento e partecipe. Anche chi era già sulla via di casa capisce che sta succedendo qualcosa di speciale e torna sui suoi passi. E applaude. Applaudono tutti. Sono davanti ad un esempio di coraggio che sta per diventare una leggenda. Stephen Akhwari viene soccorso e ricoverato in ospedale dove, dopo averlo rimesso insieme, i medici gli permettono di affrontare giornalisti e televisioni. Gli chiedono tutti perchè , ridotto così, non si sia ritirato e la risposta è formidabile nella sua semplicità: “Il mio Paese mi ha pagato un viaggio di 10mila chilometri perchè io finissi la gara, non per ritirarmi. Non si può abbandonare una gara olimpica soprattutto se senti la responsabilità di rappresentare un popolo…”.