Muore uno skyrunner pochi giorni fa nella Maratona del cielo in Valcamonica. Ogni volta che lo sport si lista a lutto si apre il dibattito sui rischi, sui pericoli, sui perchè. Così se in pista muore un centauro il tema del giorno diventa la pericolosità delle corse in moto, se muore un ciclista la pericolosità del ciclismo e così via. Sacrosanto discutere di sicurezza. Se così non fosse stato in tutti questi anni probabilmente conteremmo più vittime perchè i circuiti sono diventati più sicuri e le corse in bici anche, tanto per restare ai due esempi di prima. Poi però c’è tutto un altro discorso da fare. Si muore nello sport così come si muore attraversando una strada, facendo un giro in moto la domenica o pedalando in una città. E’ il rischio che c’è in ogni cosa che facciamo, è la fatalità, legata  al destino. Solo che quando si muore mentre si sta correndo, mentre si sta pedalando o sciando in una gara di coppa del mondo lo shock è terribile. Lo shock della morte di un atleta è terribile perchè non te l’aspetti, non la metti in conto in una situazione che è sempre esattamente il contrario e cioè l’esaltazione della vita, della gioia, del benessere condensato in un gesto fisico. L’emozione è profonda e amplifica il sentimento di smarrimento e di paura che va al di là di ogni logica e soprattutto dei numeri. E che fa sembrare la morte di uno sportivo più frequente di  quello che è. Invece per fortuna di  sport si muore poco. Pochissimo nel nostro Paese che, va detto, sia per quanto riguarda la prevenzione medica sia per l’applicazione dei protocolli  di  sicurezza che gli organizzatori sono chiamati a rispettare nelle gare, non è l’ultima ruota del carro. Resta il disagio di raccontare una tragedia. Perchè di ciò ogni volta si tratta. E allora non rimane che aggrapparsi all’illusione che quando capita sia il destino a volerlo. Volare via facendo ciò che si amava di più .Forse è un consolazione, ma è tutto ciò che  abbiamo…