«Tu lo conosci Major Taylor? É stato campione del mondo in pista non ricordo se alla fine dell’Ottocento o all’inizio del Novecento, comunque in quel periodo là…». Marco Ballestracci, speaker radiofonico, giornalista musicale e scrittore che poi su Marshall Walter Taylor, il primo iridato di ciclismo afroamericano, ha addirittura scritto un romanzo, non immaginava neppure che alla fine dell’Ottocento ci fosse qualcuno che si prendesse la briga di organizzare un campionato del mondo su pista. Ma tant’è. Ballestracci scoprì Taylor, chiacchierando al telefono con Gino Cervi, giornalista e scrittore, che giovedì sera alle 19.30 in corso Garibaldi a Milano da Rossignoli sarà con lui a raccontarla questa storia che dal ciclismo «vola» verso altri mondi e altre epoche. Parole e musica, tratti dal romanzo «Black Boy Fly» (Pagine Alvento – Mulatero Editore, 2022) che diventano spettacolo con l’armonica e la chitarra del bluesman Marco Python Fecchio in una serata di racconti, note e biciclette. Taylor figlio di schiavi, tre fratelli e quattro sorelle, nato nel 1878 in una fattoria di Indianapolis e morto a Chicago 54 anni dopo, è stato molto di più di un pistard statunitense, molto di più di un campione del mondo di velocità sul miglio. Pedalando, contribuì (e non poco) alla conquista dei diritti civili dei neri americani. Lo chiamavano «Maggiore» perché andava in giro con una vecchia giubba dell’esercito nordista e, a dispetto dei pregiudizi e dei soprusi e delle leggi razziali, diventò un mito quando nel 1899, dopo il boxeur George Dixon, fu il secondo atleta afroamericano a conquistare un titolo di campione del mondo. Ancor oggi, nella città dell’Illinois, a ricordarlo ci sono una pista ciclabile nel Dan Ryan Woods, un murale dipinto lungo un ponte pedonale sul fiume Little Calumet e un club ciclistico in suo onore. Una vita con la colonna sonora della black music, tra gospel, blues, soul, jazz e con imprese che s’intrecciarono alla storia e alle discriminazioni. Salì in bici grazie al ben volere di una famiglia di bianchi, cominciò a lavorare distribuendo giornali e cominciò a correre e per l’intuizione del proprietario di una bottega di biciclette. I suoi più forti avversari non erano i corridori bianchi, ma le leggi razziali: vietato iscriversi, vietato partecipare, vietato gareggiare. Alla fine dell’800 fu George Catterson, un costruttore di Indianpolis e appassionato di ciclismo a parlare di lui a Louis Munger, ex corridore professionista e poi produttore di bici con la Munger Cycle Company. Gli raccontò di quel ragazzino di colore che sulla pista di Capitol City aveva abbassato di 6 secondi i record dei campioni bianchi: «Ha 15 anni e se non l’avessi visto con i miei occhi non ci crederei…». Cominciò così la carriera di «Black boy» tra insulti, dispetti, sputi, con campioni, allenatori e spesso anche il pubblico che fecero di tutto per fermare quel giovane che in bici sembrava un proiettile. Dopo una corsa vinta Taylor si presentò al cospetto di Munger Taylor: «Mi chiamo Marshall signor Munger, Mayor è solo un soprannome…». «Birdie», così tutti conoscevano Munger perchè in bici assomigliava ad un uccellino, cercò di rasserenarlo dicendo che la gente in genere dava un soprannome in segno di affetto: «Forse per voi bianchi funziona così- rispose Mayor- Per noi neri è tutta un’ altra cosa…». E riprese a pedalare con più rabbia di prima…