Tadej Pogacar e Mark Cavendish primo e ultimo al Tour che ha incoronato lo sloveno nell’olimpo dei campioni che hanno fatto la doppietta col Giro. Primo e ultimo ad oltre sei ore e venti minuti di distanza, quasi due tappe. Primo e ultimo scomodando Eddy Merckx: il fuoriclasse della Uae Emirates perchè sarebbe il nuovo “cannibale”, il velocista dell’Isola di Man perchè lo ha superato nel numero di vittorie di tappa. Ma, al di là del fatto che i paragoni tra campioni di epoche differenti lasciano sempre il tempo che trovano, in questo caso sono ancora meno proponibili. Per Mark Cavendish il discorso si chiude i fretta perchè il paragone di fatto non c’è: ha vinto una tappa in più ma conta nulla perchè la storia, la classe, il valore raccontano mondi diversi e distanti. Punto. Per Tadej Pogacar il discorso è differente. Pogacar è Pogacar, unico e uno solo. Difficile dire se sia più talentuoso, più forte, più campione di altri perchè in questi pochi anni ( ne ha soli 25 ) di dominio ha dato una impronta talmente sua alle corse, alle vittorie, alle sconfitte e al suo essere testimonial di un ciclismo nuovo nell’atteggiamento tattico e non solo tattico che non può essere paragonato a nessuno. Pogacar attacca anche quando non dovrebbe, scatta anche quando potrebbe risparmiarsi, vince e stravince ma più  che un cannibale pare un “rivoluzionario” che stravolge i luoghi comuni del ciclismo di sempre.  Avrebbe dvuto  essere meno spavaldo per non inimicarsi il gruppo? Avrebbe dovuto coltivare di più le alleanze con le altre squadre per poi poter contare su qualcuno nei momenti di difficoltà? Avrebbe dovuto far vincere una tappa a Jonas Vingegaard? E perchè? Lo sport insegna che gli avversari si rispettano continuando a giocare, a pedalare a battersi fino alla fine. Fermarsi, cedere loro il passo, uno sprint, una vittoria equivale ad “umiliarli” sul campo. Si fa tanto parlare di  valori, lealtà, rispetto e allora basta dare un’occhiata ad una partita di rugby (sport che vive di tradizione e di valori) per rendersi conto che mai e poi mai sul campo una squadra smetterebbe  di battersi per non umiliare un avversario, perchè è vero solo in contrario, perchè un avversario si rispetta solo non facendo sconti o regali. E ancora. Pogacar non è Eddy Merckx, Bernard Hinalt, Fausto Coppi, Jacques Anquetil, Miguel Indurain o Stephen Roche perchè  è un campione assoluto figlio dei suoi giorni. Che senso hanno i paragoni a ritroso nel tempo? E’ cambiato tutto: bici, strade, alimentazione, allenamenti. E’ cambiata la cultura di uno sport che resta per fortuna ben radicato alla sua storia e ai suoi ricordi ma è capace anche di fare i conti con il tempo che passa e capire che tra i campioni di oggi e quelli di ieri c’è un mondo in mezzo. E vale per tutti gli sport. Ma Pogacar non c’entra nulla neppure con Marco Pantani, l’ultimo a vincere Giro e Tour, l’ottavo dei campioni che ci sono riusciti. Non c’entra nulla ma non per un fatto tecnico, perchè pedala diversamente in salita, perche è più forte a cronometro perchè domina anche le classiche, perchè oggi si corre con i caschi areo anzichè con le bandane. La differenza è solo nello sguardo: malinconico, presagio di qualcosa di drammatico, quello del Pirata;  guascone, irriverente e solare quello di questo ragazzo col ciuffo che sta scrivendo un pezzo di storia del ciclismo. Ecco la differenza tra Pogacar e tutti gli altri forse è proprio questa: la straordinaria capacità di fare delle cose enormi con un assoluto senso di leggerezza. Nè Cannibale, nè Pirata, nè  Tasso. Basta guardarlo negli occhi….