«Affamate la Bestia!»
Avremmo potuto parlare un’altra volta della Grecia, di come ciò che si accaduto con la sottoscrizione dell’accordo di lunedì scorso rappresenti una sconfitta per tutti. Per i greci che dovranno sorbirsi una nuova austerity peggiorando le proprie condizioni economiche e per i Paesi dell’Eurozona che continueranno a prestare denaro all’Ellade senza avere concrete speranze di rivederlo indietro. La Bce di Mario Draghi e il Fondo Monetario Internazionale di Christine Lagarde parlano di taglio del debito non a caso. Wall & Street si era schierata a favore di un compromesso che consentisse alla Grecia di restare in Europa: lo si è trovato ma senza andare alla radice dei problemi.
La stessa natura dei fondamentali dell’economia greca non consente voli pindarici. Si tratta di un Paese che costantemente spende più di quel che guadagna perché la produzione di beni e servizi è insufficiente a garantire redditi adeguati a tutti. Certo, non si lavora su questi squilibri in una settimana o esprimendosi con un referendum, ma si tratta di una questione fondamentale in un’ottica liberale. Non è devastando i greci con l’aumento dell’Iva che quelle difficoltà scompariranno. Non è tassando ricchezze e armatori – che già hanno spostato tutto all’estero – che il futuro diventa radioso. È un ragionamento che vale per la Grecia, per l’Italia e per tutto l’Occidente.
A volte potrebbe rivelarsi utile ascoltare un’altra campana, quella liberale e liberista alla quale, sfortunatamente, tanto l’Europa quanto il nostro Paese si sono sempre mostrati sordi. Ed è per questo motivo che vi vogliamo parlare di Grover Norquist (nella foto), fondatore e presidente di Americans for Tax Reforms (Americani per la riforma fiscale), ispiratore del «Taxpayer Protection Pledge» (Impegno alla protezione dei contribuenti), nonché guru dei presidenti e dei candidati del Partito repubblicano Usa da circa trent’anni a questa parte. La maggior parte dei deputati del Grand Old Party ha, infatti, sottoscritto l’Impegno promosso da Norquist e alcuni imbarazzi parlamentari di Obama sono stati causati proprio dalla ferma opposizione dei Repubblicani ad aumentare la spesa pubblica per mezzo di nuove tasse.
Un mese fa Norquist è stato in Italia, invitato dai Conservatori e Riformisti, la formazione nata da una scissione di Forza Italia e guidata da Raffaele Fitto e Daniele Capezzone. Il nuovo movimento ha voluto immediatamente distinguersi dalla «casa madre» aderendo (lo si nota dal nome che è un po’ un ossimoro) alla componente che nell’Europarlamento si riconosce nel premier britannico David Cameron e a livello globale nei Repubblicani americani ai quali i Tories hanno sempre guardato con molta simpatia. «Né con Merkel né con Le Pen» è lo slogan dei thatcheriani di casa nostra. A loro Norquist ha dispensato qualche consiglio.
«Per abbassare il carico fiscale dovremo ridurre il numero di tasse e, per farlo, dovremo prima abbassare la spesa pubblica complessiva. (…) La riforma più importante a lungo termine per favorire la crescita del Pil e il benessere della nazione è il ridurre il peso della spesa pubblica, riformando il sistema pensionistico e il pubblico impiego, per far sì che non pesino sulle risorse pubbliche che il Paese ha a disposizione. Solo a quel punto, lo Stato sarà in grado di abbassare le aliquote marginali di imposta».
Si tratta di una visione diametralmente opposta non solo a quella del centrosinistra (incluso quello parariformista di Matteo Renzi) , ma anche a quella di buona parte del centrodestra italiano che finora ha sempre anteposto il naturale obiettivo della riduzione della pressione fiscale al contestuale taglio della spesa pubblica. Basti pensare che Norquist è un fautore della riduzione del budget Usa della Difesa (che pesa per il 20% della spesa pubblica americana), che per alcuni Repubblicani è sacro. Allo stesso modo, il guru anti-tasse è a favore della sequestration, termine utilizzato per indicare la fissazione di un tetto insuperabile alla spesa pubblica. Negli Usa, infatti, non esiste l’esercizio provvisorio del bilancio pubblico come in Europa e se la Finanziaria (o una legge di spesa) non viene approvata in tempo utile, i servizi pubblici chiudono come è accaduto un paio di anni fa. Promuovere la sequestration significa imporre alle amministrazioni regole rigidissime di gestione degli esborsi e, soprattutto, delegare al privato quanto più possibile.
Indicazioni che i Conservatori e Riformisti hanno cercato di recepire nel loro programma politico, chiaramente ispirato all’eredità spirituale di Ronald Regan e di Margareth Thatcher, le due più grandi figure politiche del secolo scorso. Un lascito che si può tradurre con il motto «Starve the beast!», cioè «Affamate la bestia!» ove per “bestia” si intende lo Stato e per “affamare” la riduzione della spesa. Secondo questo schema la riduzione della pressione fiscale procede e precede il taglio della spesa, nel senso che i due momenti sono inscindibili. Lo Stato incasserà di meno, chiederà di meno e perderà sempre più ambiti di influenza, ritirandosi, dimagrendo e lasciando spazio all’iniziativa privata nella scuola, nella sanità, nella previdenza, nei trasporti, nelle politiche per l’impiego. Restano pubbliche solo le funzioni primarie dello Stato come la giustizia, la difesa (interna ed esterna) e un minimo di burocrazia. Il centrodestra è questo: ve l’abbiamo detto anche l’anno scorso.
Poiché non siamo mai stati apodittici, cerchiamo di fornire alcuni dati empirici a supporto delle tesi, ovviamente aprendo delle parentesi laddove necessario. Quello che vedete a fianco è un grafico che evidenzia la pressione fiscale in rapporto al Pil in cinque Stati nel periodo 2000-2012. Gran Bretagna e Stati Uniti sono i meno esosi. Da notare come George W. Bush,consigliato da Norquist, abbia immediatamente ridotto le tasse appena eletto e come lo stesso abbia fatto Cameron. Anche Obama ha abbassato la pressione fiscale ma senza diminuire la spesa pubblica determinando un incremento del debito pubblico Usa a livelli monstre.Da notare come la Germania abbia mantenuto la pressione fiscale invariata nel periodo, mentre Francia e Italia (eccezion fatta per il governo Berlusconi II) hanno finanziato le loro spese a suon di tasse.
Non è un caso che gli Stati con la minor pressione fiscale siano stati quelli che hanno affrontato meglio la crisi, uscendone prima. Non sorprenda la performance della Germania il cui surplus commerciale a scapito degli altri Paesi della zona euro ha restituito a Berlino una crescita ben superiore a quella derivante dai fondamentali macroeconomici, già di per sé brillanti. Chi s’è portato dietro il fardello di uno Stato pesante, senza essere Frau Merkel, ha penato. E noi italiani lo sappiamo bene. Molto bene.
Con il grafico sulla disoccupazione, limitato a Eurolandia, si conferma il risultato prodotto dalla pressione fiscale sul mercato del lavoro. Mancano i dati degli Usa? Presto detto, la tendenza è stata simile a quella della Gran Bretagna. Solo che, come ricordato in precedenza, Obama ha finanziato le condizioni per creare nuovi posti di lavoro con maggior deficit. Un conto che i suoi successori saranno chiamati comunque a pagare. E che sarà salatissimo se non si interverrà col bisturi sulle aree di maggiore squilibrio: gli Stati Uniti governati dai democratici hanno fatto spesa in deficit e le conseguenze di questo trend Roma e Atene le conoscono benissimo.
Ora, non per fare i saputelli, ma questo è ciò che è accaduto in Gran Bretagna da quando Cameron è premier: la spesa sociale è calata e non parliamo di pensioni ma anche di sussidi di disoccupazione. Il primo ministro da quest’anno ha attuato una riforma che in Italia farebbe invidia a molti: si può andare in pensione dopo i 55 anni di età ricevendo tutti i contributi versati dei quali il 25% è esentasse mentre sul resto si paga l’aliquota marginale. Meraviglie dei sistemi liberali: le pensioni sono un conto individuale intestato al contribuente che ne può disporre quando (ovviamente non a 40 anni) e come vuole. In Italia per farlo ci vorrebbero 400 miliardi di euro in quanto sarebbe necessario ricostruire le posizioni individuali di ciascuno di noi che quotidianamente vengono impiegate per pagare gli assegni di chi si è già ritirato dal lavoro.
E al grido di «privatizzare è bellissimo» ci congediamo. Non prima di aver sollevato qualche dubbio sulla realizzabilità del Tax Pledge. Purtroppo in Italia esiste una norma che si chiama «articolo 67 della Costituzione» che libera il parlamentare da qualsiasi vincolo. Una volta eletto, egli rappresenta tutti: dunque non si può chiedergli materialmente di rispettare un impegno sottoscritto perché si presume che egli decida per il bene della nazione e non dei suoi elettori. Negli Usa, invece, questo è possibile, anzi doveroso. Senza l’articolo 67 della Costituzione non ci sarebbero nemmeno i cameroniani italiani. E questo sia detto senza nessuna polemica…
Wall & Street