kipBoston è  Boston e la cronaca non finisce mai. Così non basta raccontare che la 122ma volta si corre con neve e pioggia, a zero gradi, con un vento gelido che dimezza il gruppo, con i top runner avvolti nei kway come tanti tapascioni.  Non basta raccontare che primo in 2 ore e 18 arriva il giapponese Yuki Kawauchi, impiegato nella prefettura della sua città e maratoneta part-time, che si mette dietro gazzelle africane, campioni del mondo, vincitori di edizioni passate, gente che con la corsa ci vive e ci campa. Lui no. Corre dieci maratone l’anno, quest’anno era già alla quarta ed è nel Guinnes nei primati per aver corso 80 maratone sotto le 2 ore e 20: ma fa un altro mestiere. Come Sarah Sellers, 26 anni, infermiera anestesista seconda tra le donne in 2h44’04” dietro alla connazionale Desiree Linden, che si allena alle 4:00 del mattino,prima di andare a lavoro. La maratona è  la passione della domenica, come per tanti appassionati che corrono in giro per il mondo. Ma Boston non delude mai e ogni volta sa raccontare storie diverse. Perchè è la vera maratona americana, quella che conta. Più di New York, considerata commerciale, da “parvenu” della fatica, da turisti. Boston è Boston da sempre, da 122 anni sempre  il terzo lunedì’  del mese durante  il Patriot’s day la festa che in Massachusetts celebra l’inizio della rivoluzione.  Boston che si è sempre corsa, senza mai un’interruzione neanche durante guerre e terremoti. Boston è il fiore all’occhiello degli americani, il punto d’orgoglio, la loro storia sportiva, il simbolo che conservano. Boston è la maratona più dura del mondo con quella sua collina spaccacuore a dieci chilometri dall’arrivo.  Boston per noi è la vittoria di Gelindo Bordin,  il 16 aprile del 1990, dopo l’oro ai Giochi del 1988,  che da queste parti scrisse un pezzo di storia che non cancellerà più nessuno:  primo in 2:08’19” e primo campione olimpico a vincere anche a Boston. Mai più successo. Boston è una ferita riaperta dopo  le torri gemelle. Boston è Roberta Gibb che  nel 1966 la corse in 3 ore e 21 minuti ma senza nessun tipo di certificazione. Si dice sia stata la prima donna della storia ma forse no. Perchè  per trovare la prima traccia di una donna in una maratona bisogna ricordare Kathrine Switzer che qui ha cambiato la storia che allora vietava alle donne di correre le lunghe distanze che si temeva fossero dannose per la loro fertilità. Boston è l’essenza di un sport che ha qualcosa in più. Dove contano gli uomini ma forse anche gli Dei come vuole una leggenda che sui quei quarantadue chilometri e 195 metri si rinnova ad ogni passo. E questa volta è toccato a questo giapponese maratoneta della porta accanto ricoprirsi di gloria, mettersi alle spalle, tra la sorpresa di tutti, il campione del mondo in carica Geoffrey Kirui e lo statunitense di origini keniane Shadrack Biwott partito tra i favoriti. Gli altri? Tutti saltati. Tutti lontanissimi e dispersi in una giornata che sembrava fatta apposta per il trionfo di questo “impiegato”, un po’ samurai e un po’ ribelle senza allenatori, senza team  e senza sponsor che sorre solo per  sentirsi libero. E che a Boston ( dove se no?) ha scritto un pezzo di storia…