Mishima meglio di Wikipedia
Anche i gusti letterari seguono “mode” o stagioni. Prendete a esempio la produzione letteraria giapponese. Chi la conosce? Pochi, ovviamente. Anche i nostri editori hanno poco dimestichezza con il grande romanzo del Sol Levante. E i pochi che arrivano, lo fanno proprio sulla cresta di onde (le mode) che presto si appiattiscono a riva.Vent’anni fa, più o meno, quella letteratura aveva una punta di diamante che anche da noi era riuscita a sfondare il muro dell’indifferenza. Il suo nome alquanto insolito per noi, aiutava più che altro il cosiddetto market placament: Banana Yoshimoto. Una scrittrice in gamba e soprattutto molto attenta nel descrivere, in maniera sufficientemente didascalica anche per noi occidentali, come stesse cambiando il mondo giovanile nipponico sul finire degli anni Ottanta. Lei si è costruita una fama internazionale mescolando minimalismo a bozzettismo sociale: regalandoci perle di “esotismo tecnologico e consumistico” cui noi ancora non eravamo avvezzi.
Ora, invece, se si entra in una libreria, non si può fare a meno di incrociare i titoli di Haruki Murakami. Da quando i primi titoli hanno superato la prova del pubblico, è stata una valanga inarrestabile. Sugli scaffali, dove i librari spesso dividono i titoli per editore, è facile imbattersi in vere e proprie “isole” composte da una ventina di titoli di Murakami (l’editore in questione è Einaudi).
Questa abbondanza mi inquieta. E così mi sono ritrovato a cercare negli scaffali meno frequentati altri titoli, altri autori. Con la speranza di trovare un altro grande scrittore giapponese. Quel Yukio Mishima (1925-1970) che per primo ha portato in occidente il vento letterario dell’estremo oriente. E sono stato fortunato. A ben guardare, qualche titolo c’è e gli editori ancora credono in questo longseller writer. Feltrinelli ha addirittura ritradotto alcuni dei suoi titoli più fortunati. Mondadori ha approntato un Meridiano per i suoi romanzi. Bompiani, poi, che è stato il suo primo editore italiano, continua a ristamparne di tanto in tanto i titoli migliori.
Tra le mani mi è finita una copia di Cavalli in fuga (Bompiani appunto). Come l’autore, anche il giovane protagonista (siamo nei primi anni Trenta) è un cultore delle arti marziali. Come Mishima, questo giovane atleta ha a cuore le sorti della sua patria e ne teme il declino. Teme, soprattutto, che la “divinità” imperiale venga presto circondata da politici “bottegai” e industriali senza scrupoli. Ha paura, questo giovane tutto preso dalla più alta e raffinata tradizione nipponica, che l’incipiente consumismo dilaghi e che il denaro corrompa gli animi più di quanto sopportabile, svilendo i corpi e indebolendo lo spirito. Il giovane Isao ha anche un fervente ammiratore nel giudice Honda. Anche lui conservatore nello spirito e nelle idee, ma ligio al suo dovere di “servo” delle istituzioni (“Come il palafreniere odora sempre di stalla, così Honda, all’età di trentotto anni, era impregnato dell’aroma della giustizia legale”). Onore, patria, fedeltà, tradizione qui non sono solo parole o slogan. In questo, come in molti altri testi di Mishima, divengono paradigmi irrinunciabili. Più spesso cartine di tornasole per verificare la tenuta sociale e culturale dell’intero Paese, avviato proprio in quegli anni a sottomettersi a una quasi brutale mutazione (da nazione prevalentemente agricola a potenza industriale).
Honda racconta la storia di Isao, ne funge da testimone. Alla fine del romanzo, dopo che il ragazzo ha capeggiato una “rivolta” romantica, fanciullesca, ingenua e sfortunata, il giudice diventa coprotagonista, svestendo la toga per difendere il suo “protetto” in qualità di avvocato. Riuscirà a salvarlo dalla prigione grazie al sentimento sempre più diffuso di ammirazione nei confronti di questa “setta” di iper-tradizionalisti devoti all’imperatore, ma non dal tanto agognato rito del seppuku. E qui le cose, almeno per il lettore, iniziano a complicarsi. Il libro fa parte di una tetralogia (Il mare della fertilità) che si chiude proprio nell’anno della morte dell’autore con la stesura de Lo specchio degli inganni. Un’uscita di scena tanto drammatica quanto spettacolare, visto che Mishima cede al suicidio proprio con il rito del seppuku (cerimonia che termina proprio con un lungo coltello piantato nel ventre) il 25 novembre del 1970 davanti a centinaia di testimoni (tra cui molti giornalisti). La breve vita di Isao ricalca in qualche modo quella dell’autore. Ecco perché la lettura del testo deve essere attenta e sensibile. Il lungo racconto, però, oggi rimane valido soprattutto per la descrizione del Paese non tanto del secondo dopoguerra (Mishima aveva in tutti modi manifestato contro la nuova Costituzione del 1947 e contro il Trattato di San Francisco, che disegnava il nuovo ordine mondiale con la nascita dell’Onu), quanto quello degli anni Trenta. Mishima infatti non si limita a descrivere gli effetti del repentino scivolamento verso l’industrializzazione e la speculazione finanziaria, vuole fare emergere quelle debolezze culturali, ideologiche e sociali che proprio di quella decadenza costituiscono i poco considerati prodromi. E in tutto questo la sua visione filosofica e religiosa fa da inutile (ma estremamente poetico) controcanto: “La divinità – scrive – è la fonte. Il mondo visibile è la sua manifestazione. Chi presiede ai casi umani, chi guida e governa gli uomini deve vedere nella divinità la causa, e nel mondo visibile la conseguenza. Per chiunque sappia associare in armonia causa e conseguenza il mondo intero non sarà di alcun peso”.
Il libro è pieno di queste perle di saggezza. E non sempre il tono riesce a essere leggero e digeribile. Più spesso è altisonante, quasi enfatico. O drammatico. Arrivare fino all’ultima pagina è un percorso pieno di insidie. Anche perché il finale non è certo a sorpresa.
Tuttavia sorprende un passaggio, proprio verso il finale. Isao riesce a uccidere (prima del seppuku) il tanto odiato industriale/speculatore Kurahara. Ed è il pensiero di questo al momento della morte che rimane vivido nel ricordo del lettore. “Fissava Isao con due occhi nei quali si leggeva il terrore di trovarsi, orribilmente solo, a tu per tu con un demente”.
Kurahara è il magnate senza scrupoli, quello che fa accordi sotto banco con i politici corrotti. Quello insomma che misura la vita degli altri con il valore del denaro. Eppure al lettore più smaliziato resta il dubbio. Isao avrà davvero avuto gli occhi del demente proprio nel momento in cui la sua stessa parabola volgeva al termine? E fino a che punto il suo autore era distante da questo giudizio? Col senno di poi, sapendo cioè come terminò la vita di Mishima, sarebbe logico supporre che era distante anni luce. Ma le ragioni della scrittura sono diverse da quelle dell’ideologia. Il testo parla per sé. Senza chiedere l’aiuto di nessuno. E qui, il finale vagamente ironico, vira bruscamente la tonalità dell’intero (lungo) racconto. Spiazzando il lettore che alla fine godrà di un dramma umano avvincente e di un davvero ammirevole affresco del Giappone degli anni Trenta, da fare invidia al più scrupoloso degli storici. Senza però essere certo della posizione dello scrittore circa la “sanità mentale” del suo stesso personaggio.