La Caporetto di Hemingway è una vittoria letteraria
Chiudendo Addio alle armi di Ernest Hemingway (nell’edizione Oscar Mondadori con la preziosa traduzione di Fernanda Pivano) mi è tornata in mente la figura di Medusa. Impossibile guardare negli occhi il mitologico personaggio. E chi alzava lo sguardo su di lei lo faceva attraverso l’espediente di una superficie riflettente. La guerra, con i suoi orrori e la sua stupida e cieca violenza, non può essere guardata direttamente negli occhi. Si può soccombere nel tentativo di raccontarla e di spiegarla. Si soccombe per pietà, si soccombe per debolezza o si soccombe sotto il peso di una retorica anestetizzante. Ecco: Hemingway ha guardato gli orrori della guerra, questa Medusa del Novecento, attraverso un espediente letterario non soltanto intelligente e onesto, ma anche appassionato ed efficace. Lo ha fatto prestandoci gli occhi di un barelliere. Anzi di un ufficiale americano “arruolato” dalla Croce Rossa in qualità di autista. E’ lui, Frederic Henry, a raccontarci com’è la vita al fronte. Rivediamo le Alpi orientali con i suoi occhi. Così come le colline venete e la Bassa fino a Milano. Non assistiamo mai agli scambi a fuoco dalle trincee. La guerra arriva più efficacemente con i suoi effetti deleteri: i divieti, i feriti, le privazioni, le strade dissestate e i ponti buttati giù. Anche l’unico sparo che va mortalmente a segno è “fuoco amico”, e arriva durante la ritirata seguita alla celeberrima e infausta disfatta di Caporetto. Si capisce, quindi, come mai in Italia questo libro sia stato pubblicato soltanto nel 1948. La descrizione degli effetti della guerra non piaceva al regime mussoliniano. Il libro, pubblicato in America già nel 1929 e da subito acclamato sia in Europa che negli States come un autentico capolavoro, rappresentava una visione poco rispettosa della vulgata ufficiale. Gli sconfitti, secondo Hemingway, sono tutti i soldati, tutti gli arruolati, sia italiani che austriaci. E, di loro, soltanto i contadini sopportano meglio il peso della guerra perché già umiliati dal destino visto che “sono stati battuti quando li hanno presi dalle loro campagne e li hanno messi nell’esercito”. “Per questo – suggerisce lo stesso tenente Henry – il contadino è saggio, perché è sconfitto fin dal principio”. E poi c’è la denuncia degli scarsi rifornimenti, delle avanguardie stremate più dalla fame che dal freddo e dal fuoco nemico. E la storia d’amore con l’infermiera inglese Catherine si intreccia alle vicissitudini belliche del barelliere. I due scappano dalla guerra, approdando a Stresa e da lì, con una fuga rocambolesca sulle acque del lago Maggiore in Svizzera. Rocambolesca e struggente a un tempo. Con una descrizione da maestro che ci fa immediatamente ricordare i migranti in cerca di salvezza sulle acque del mare. Catherine è anche incinta. Ma il finale è tutt’altro che edificante. Un dramma assoluto sigilla il racconto. Un finale che – come ebbe a scrivere un entusiasta Ford Maddox Ford – “resta impresso nella mente anche dopo aver finito di leggere il libro”. Grazie anche a uno stile asciutto ed essenziale che secondo Mario Praz “aderisce al contorno delle cose con una fermezza che ha dell’impersonale”.
I tempi che viviamo sono segnati da uno strapotere dei media e di internet, che semplificano fino all’osso qualsiasi resoconto. Affidandosi sempre più spesso a formule retoriche e di sicuro impatto. E anche il dibattito storico e politico spesso si riduce a slogan usa e getta. Buoni per impressionare i lettori sempre più distratti. Ecco perché un libro come quello di Hemingway oggi è un antidoto efficace. Con la sua scelta stilistica ci insegna a diffidare delle vulgate ufficiali e ad assecondare piuttosto le esperienze dirette e il confronto. E la sua onestà di scrittore arriva al punto di fargli confessare che non si fida più nemmeno delle parole. “Ero sempre imbarazzato dalle parole sacro, glorioso e sacrificio e dall’espressione invano… Parole astratte come queste risultavano oscene accanto ai nomi concreti dei villaggi, ai numeri delle strade, ai nomi dei fiumi, ai numeri dei reggimenti e alle date”.
Il libro, infine, si offre come illuminante saggio di editing visto che l’edizione Oscar Mondadori (curata da Paolo Simonetti) non soltanto riporta tutti i possibili titoli scartati poi dall’autore ma anche i famosi 47 finali. Perché fino all’ultimo Hemingway è rimasto nel dubbio su quale finale fosse il più efficace sigillo a questo diario bellico.