“Le donne”, scrive Michaìl Jurevic Lèrmontov nel suo capolavoro Un eroe del nostro tempo, “amano soltanto gli uomini che non conoscono“. Ed è sicuramente su questa caratteristica che punta l’antieroe lermontoviano Grigorij Pecorin per le sue avventure galanti, spregiudicate e caratterizzate da una vena di cinismo. L’ufficiale Pecorin è uno dei personaggi più interessanti della letteratura moderna. Soprattutto per la sua capacità di essere paradigma delle debolezze umane. E anche, se non soprattutto, perché le sue nefandezze, le sue piccinerie, vengono scoperte poco alla volta dal lettore, dal momento che il narratore (di un’onesta intellettuale davvero senza precedenti), non impone un modello sempre uguale per tutto il libro, ma proprio come facciamo noi quando impariamo a conoscere una persona soltanto dopo una lunga frequentazione, rimodulando ogni volta il giudizio in base alle sue azioni, lascia a noi il compito di capire cosa è in base a quello che fa. E’ forse questa la cosa che più mi ha colpito della lettura di questo romanzo uscito in Russia nel 1840 (quando l’autore aveva soltanto 37 anni e un anno prima che morisse in duello).  Di solito gli scrittori immaginano un personaggio e poi costruiscono la storia come fosse un vestito su misura del suo carattere e della sua personalità. Qui Lermontov fa il contrario: sveste Pecorin a poco a poco. Lo lascia nudo con la sua anima soltanto alla fine del libro.  Un libro questo da rileggere (tenendo poi conto che di traduzioni belle e appassionate ce ne sono tante. Qui ne cito almeno due: quella di Elisabetta Bruzzone per gli Oscar Mondadori e quella più recente di Paolo Nori per Marcos y Marcos). Sostanzialmente perché pochi eroi negativi restano bene impressi nella nostra memoria di lettori come questo ufficiale russo sempre in cerca di una via di fuga dalla noia. Come scrive nella prefazione Lermontov stesso, “la storia di un’anima, anche la più insignificante, è più interessante e utile della storia di un popolo intero”. Quindi l’impegno che l’autore profonde nel porre il suo anti-eroe al centro di un contesto avventuroso serve soprattutto a rendere ancor più articolata la descrizione del suo mondo interiore. Una poetica che sembra prendere le mosse da alcuni rappresentanti del romanticismo francese come il Benjamin Constant dell’Adolphe e il De Musset delle Confessioni di un figlio del secolo piuttosto che dal genio di Puskin.  Come ha scritto Vittorio Giacopini in occasione dell’uscita, un anno fa, della traduzione di Nori, il “vecchio e miserabile trucco di fare il ritratto della società guardandola dall’alto è scaduto per sempre non serve più. L’identità individuale come entità sociale si costruisce per congetture e indizi e ipotesi e illazioni, senza certezze”. Insomma siamo al trionfo del postmoderno!  Anche se siamo nel 1840. Quando si dice un lavoro pionieristico!

 

 

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