L’autocensura di Ian McEwan
Continuo alacremente a sfruttare il mio nuovo e-reader. Per adesso leggo soltanto titoli nuovi e di discreto successo. Non essendo impaziente di verificare tutte le capacità del catalogo digitale, mi sto accontentando dei cosiddetti titoli mainstream. L’ultimo in ordine di tempo, e quello di cui qui parlerò, è Macchine come me di Ian McEwan (Einaudi). Sono contento di averlo acquistato on line, visto che nella mia biblioteca i suoi libri occupano già un intero scaffale.
A fine lettura ho una considerazione da fare. Premesso che il libro è, come i precedenti, un ottimo romanzo, mi accorgo che ci sono due piccoli difetti quasi imperdonabili (vista l’intelligenza e la bravura dell’autore).
Ma ai difetti ci arrivo alla fine. Prima è meglio raccontare ciò di cui parla il racconto. Si tratta di un romanzo chiaramente distopico. Ambientato nella Londra degli anni Ottanta, ferita dalla guerra delle Falkland e dalle serrate dei minatori, e da una crisi economica molto pesante, ma dove già imperava Internet e i cellulari erano di uso comune, il libro racconta la vita di Charlie Friend che spende il gruzzolo ricavato dall’eredità materna per comprare un replicante di ultima generazione. Ne sono usciti soltanto una trentina dalla linea di produzione. Metà “maschi” (Adam) e metà “femmine”. Ovviamente si tratta di robot davvero sofisticati che replicano in tutto e per tutto l’uomo. Con ovviamente il grande vantaggio di una mente matematica eccezionale e di una memoria fuori dal comune (con tanto di accesso privilegiato ai dati pescabili dal web). Seguendo le teorie di Alan Turing (ancora vivo e vegeto nella capitale inglese degli anni Ottanta), questo tipo di “cervello” è capace di crescere e di imparare a evolvere il proprio comportamento e le proprie reazioni “emotive”. Portare alle estreme conseguenze i ragionamenti che si districano tra i principi morali del bene e del male, però, può comportare una radicalizzazione estrema della morale. Charlie e la sua compagna Miriam finiranno appunto per essere schiacciati da tutta questa logica e razionalità. Proprio come già accaduto in uno dei romanzi precedenti di McEwan (La ballata di Adam Henry), portare alle estreme conseguente un ragionamento positivo, fondato sul bene comune e sui principi etici, può comunque sfociare in una tragedia umana imprevedibile.
Il romanzo per nostra fortuna si chiude con un manifesto di rinnovato umanesimo. Dove i nostri limiti, i nostri difetti, le nostre debolezze e soprattutto le nostre reazioni imprevedibili, possono comunque portare a un riscatto dell’umano e a una sua promozione. Lo stesso Turing alla fine dice al protagonista, schiacciato da un destino affatto imprevedibile e da un rapporto a dir poco problematico con il suo robot domestico, “Lei ha idea di che cosa ci vuole per afferrare una palla, portarsi una tazza alle labbra o attribuire un senso immediato a una parola, una frase, un’affermazione ambigua? Noi non ce l’avevamo, almeno in principio. Risolvere problemi matematici è una frazione infinitesimale di quello ch fa l’intelligenza umana”. Insomma l’essere umano è ancora capace di superare la più sofisticata macchina semplicemente perché sa scartare dalla regola con imprevedibile scaltrezza e sa misurare con “umanità” le dosi di bene e male che devono essere posizionate sulla bilancia. Cosa che a una macchina, alle prese con il diritto (inteso proprio come corpus di leggi codificato) non è permesso,
Ho volutamente omesso di squadernare il plot (molto articolato) in cui si articola questa storia. Elegante, raffinata e sempre molto originale, come sono i libri dello scrittore britannico. Però mi preme, a questo punto, aggiungere due considerazioni. Due appunti, diciamo così, polemici. In questo romanzo distopico le Falkland vengono perse. Nella fantasia letteraria di Macchine come me, infatti, l’Argentina vince la guerra proprio come veramente vincerà i mondiali di calcio di lì a pochi anni (1986). La signora Thatcher, però, non si dimette. Ed comunque protagonista, nel bene e nel male, del destino del suo Paese. Solo il leader labourista ha un nome di fantasia. Tony Benn (e rimane per giunta vittima di un attentato durante una pausa di un congresso a Brighton).
Il secondo appunto riguarda la mia città, Roma. Nel racconto il protagonista fa il broker, anzi lo speculatore finanziario in proprio e ricorda come era difficile investire nel settore immobiliare nella capitale italiana. “Il lavoro era difficile ed estenuante, soprattutto a Roma, dove ci toccava scoprire ogni volta come e quale funzionario comunale dovevamo corrompere”. Ovviamente questa citazione non dice molto di nuovo sulla Città Eterna. Che la sua macchina “comunale” sia spesso inceppata da meccanismi bisognosi di essere continuamente “oliati” è più che risaputo. Però stupisce che McEwan oggi scriva cose che quindici anni prima non solo non si sarebbe sognato di scrivere ma che contrastavano fortemente con quanto invece aveva effettivamente scritto e pubblicato. Bisogna tornare infatti al 2005 anno di pubblicazione del romanzo Sabato. Il libro è ambientato nel 2003 e racconta una giornata molto particolare (un sabato appunto) di un celebre neurochirurgo londinese. In un ricordo estivo di qualche anno prima il protagonista fa un elogio sperticato di Roma, ma non della città, bensì della sua amministrazione, esaltando il ruolo di Walter Veltroni. In molti allora si stupirono di questa captatio davvero fuori misura. Eppure era sincera e appassionata, come si affrettò a spiegare lo scrittore inglese a chi gliene chiedeva conto.
L’accusa indiscriminata che si legge nelle pagine di Macchine come me stride con quella pagina di Sabato. Così come la presenza di Margaret Thatcher, sconfitta alle Malvinas, stride accanto a Tony Benn, (vittima del terrorismo interno in un Regno Unito dilaniato dalla crisi economica e sociale). E francamente io non riesco proprio a capire le ragioni di questa autocensura. Voi?