Calvino pentito ma non troppo
Abolite le mezze stagioni, archiviate le abitudini più radicate, esistono poche certezze. Una di queste è la presenza del Calvino della Trilogia degli antenati nell’elenco delle letture estive dei nostri ragazzi. Visto che faccio un’enorme fatica a capire i nostri ragazzi e a cogliere gli aspetti salienti del loro immaginario, ho voluto rileggere uno di questi libri. Immaginando di essere un quindicenne di oggi per vedere l’effetto che fa. E così ho riaperto Il visconte dimezzato (posseggo l’edizione del giugno del ’90, la prima pubblicata da Mondadori dopo l’acquisizione dei diritti delle scrittore scomparso prematuramente nel 1985).
Se fossi un ragazzo di oggi avrei difficoltà a sopportare la compiaciuta vena favolistica del racconto. E non credo che i nostri figli oggi apprezzerebbero quell’atmosfera sospesa e vaga. Quel tempo lontano, quei costumi antichi, quella comunione piena con la natura. Ho anche segnato una ventina (ma probabilmente il mio computo erra per difetto) di termini che oggi risultano non solo desueti ma proprio incomprensibili.
La storia poi è piuttosto lenta nel suo procedere e chiede al lettore una partecipazione più che attiva. Per non dire di quell’alternarsi monotono tra le sortite del Gramo e le azioni del Buono. I ricordi delle mie precedenti letture erano abbastanza vividi e già aspettavo il finale moraleggiante quando, all’improvviso, un guizzo di Calvino mi ha fatto sobbalzare.
Per spigare come e perché dovrò comunque riassumere brevemente la storia. Il visconte Medardo di Torralba parte per la guerra agli infedeli. Un colpo di cannone quasi lo uccide, strappandogli metà del corpo. E così conciato torna nella sua terra e al suo castello. La sua rabbia, il suo dolore trovano come unisco sfogo quello di dimezzare ogni cosa (vivente e non). Vuole un mondo a sua immagine e non frena mai la sua indole cattiva. Ad un certo punto, però, in paese e nel contado iniziano ad avere le idee confuse perché il visconte inizia a profondersi in azioni tutt’altro che pestifere. E così Terralba diventa il teatro di un favolistico duello tra il bene e il male.La favola calviniana si chiude proprio come il più classico dei cônte moral. Con buona pace dei nostri adolescenti che possono così ripetere all’insegnante il perché e il per come un uomo si divida sempre tra il bene e il male. E che è la nostra natura con cui dobbiamo sempre fare i conti.
Ma c’è un ma. E lo si trova quasi alla fine dell’esilissimo libro (soltanto un centinaio di pagine, altro motivo di seduzione per i nostri ragazzi). Calvino (o meglio il giovane narratore) sta raccontando l’ennesima incursione della metà buona del protagonista nel villaggio dei lebbrosi. Va bene che si prodiga a curare tutti, ma inizia a rompere con tutti i suoi accenni morali, con i suoi suggerimenti, con le sue norme di buon vivere secondo una morale fin troppo rigida. Anche gli ugonotti non ne possono più della metà sinistra (guarda il caso) di quello che un tempo era il coraggioso visconte. Questi vorrebbe che gli stakanovisti ugonotti regalassero i raccolti alle popolazioni di pianura che muoiono di fame. Va bene la carità, pensa il capo degli ugonotti, Ezechiele, ma rimetterci del nostro non se ne parla proprio!
Se fosse possibile aggiornare Il visconte dimezzato, io lo interromperei a questo punto, quando lebbrosi e ugonotti iniziano a vedere sotto una luce diversa la metà destruens e destra del visconte.
Eravamo soltanto nel 1951 quando Calvino scriveva il suo secondo romanzo. E già c’era, in nuce, la prima (subito soffocata) ribellione alla dittatura del politically correct.