“Come se fossi sceso da una montagna immaginando di salire”
Sono ancora qui a parlare di quei meravigliosi collegamenti che si creano nel momento in cui fruiamo l’arte. Nel caso in questione si tratta dell’arte cinematografica. Mi è infatti capitato di ammirare in tv (vedere sarebbe riduttivo) il film Living, uscito nel 2022 e diretto dal regista sudafricano Oliver Hermanus. Scritto da Kazuo Ishiguro (l’autore, per intenderci, del meraviglioso Quel che resta del giorno), il film riprende e attualizza uno dei primi capolavori di Akira Kurosawa. Al netto delle dovute differenze, la pellicola racconta la parabola di un funzionario pubblico che abbandona la sua apatica divisa di burocrate quando scopre di soffrire di un male incurabile. Un suo gesto altruista e gratuito riscatterà l’intera esistenza e le consegnerà un valore inestimabile: la felicità dei bambini che godranno di un parco giochi frutto della sua testarda pervicacia (lottare contro l’inflessibile macchina della burocrazia è impresa solitamente fallimentare e donchisciottesca).
La visione di questo film mi ha commosso. L’interpretazione dell’attore protagonista (Bill Nighy), la scrittura, i dialoghi (impossibile non sentire la mano dell’autore di Quel che resta del giorno), e soprattutto la parabola edificante, tutto ha concorso a fare di quei cento minuti di film un’esperienza davvero profonda. E, come sempre accade quando qualcosa non mi lascia indifferente, sono andato a ricercare notizie e curiosità per capire la genesi del film. Ed è così che ho scoperto che il maestro Kurosawa aveva tratto ispirazione da una celebre novella di Leone Tosltoj: La morte di Ivan Il’ic. Nei manuali di storia letteraria questo racconto viene considerato una pietra miliare nella produzione tolstojana (per Cajkovskij è il più bel racconto mai scritto).
E così sono arrivato alla Morte di Ivan Il’ic (nel mio caso nella traduzione di Paolo Nori per Feltrinelli). Esperienza altrettanto memorabile. Racconto commovente e, sotto molti aspetti, un gioiello narrativo. Il racconto (lungo una sessantina di pagine) si apre e si chiude con la morte del protagonista. Alla sua veglia funebre arrivano i colleghi a consolare la moglie e i figli. E le loro memorie condivise sono il pretesto con il quale l’autore inizia a squadernare la parabola esistenziale di questo funzionario pubblico, dedito alla carriera e a vivere una vita improntata al decoro borghese. E proprio quando è all’apice della carriera e delle soddisfazioni materiali, spunta un male incurabile. Da qui la discesa rapida verso una morte lenta ma dolorosa che spinge il narratore ad analizzare con forte empatia i pensieri più profondi del protagonista.
Nel corso del racconto Tolstoj dissemina molti indizi sulla vanità delle piccinerie umane. E in qualche modo ci aiuta e ci prepara al gran finale. In sostanza noi lettori abbiamo il privilegio di rivivere la storia di Ival Il’ic in un meraviglioso compendio nel quale molti ammonimenti vengono disseminati per istruirci e per illuminarci. Un esempio su tutti è la descrizione della casa della famiglia del protagonista. Un appartamento che rappresenta l’orgoglio dell’alto funzionario e che in essa vuole vedere rispecchiato il suo successo professionale e sociale. “C’era tutto quello che si trova di solito nelle case di quelli che non sono proprio ricchi ma che vogliono assomigliare a dei ricchi e finiscono così per assomigliarsi tra loro: damaschi, ebani, fiori, tappeti e bronzi, tutto scuro e brillante; c’era tutto quello che le persone di un certo ceto trovano per assomigliare a tutte le persone di un certo ceto. E da lui assomigliava talmente, che era come se non si vedesse niente. Ma a lui questo sembrava, in un certo senso, un tratto distintivo”. Tolstoj ci prepara al commiato finale. Noi siamo più preparati senza dover subire le sofferenze e le umiliazioni del protagonista.
Con perizia da maestro, l’autore si fa da parte e costringe al silenzio anche il narratore concedendo direttamente la parola a Ivan Il’ic. Noi quasi non ci accorgiamo dello spostamento perché, in fondo, riteniamo che i tre siano la stessa persona, la stessa voce. “Il matrimonio… era stato un caso, e la delusione, e l’odore della bocca della moglie, e la sensualità, una finzione! E quel lavoro morto, e le preoccupazioni per i soldi, e così un anno, e due, e dieci, e venti, sempre uguale. E più si andava avanti, più si incontravano delle cose morte. Come se fossi sceso da una montagna, immaginando di salire”.
Ed eccoci tornati al film. Il protagonista di Living trova al fondo di quella stessa discesa (che proditoriamente immaginava fosse un’ascesa) un playground. Un’area urbana da salvare dal degrado e dall’abbandono. Da trasformare in un luogo di felicità incondizionata (quella dei bambini che provano il brivido dell’altalena). E quel Vivere! del titolo di Kurosawa è nelle risa dei bambini come per Tolstoj era nella genuina vitalità del servo Gerasim, l’unico in grado di assisterlo senza mortificarlo. Consolandolo con l’unica verità che nella bocca di tutti è un tabù impronunciabile: “Tutti dobbiamo morire. Perché non dovrei darmi da fare?”