Virginia Woolf e il ritratto di un anarchico
“Non umiliare. Non c’è giustificazione che tenga contro simile delitto eternamente impunito”. E’ l’undicesimo comandamento. Non lo si ritrova nelle tavole della Legge consegnate a Mosè sul monte Sinai. E non lo si ritrova nel catechismo. Ma gli anarchici illuminati lo insegnavano. Soprattutto ai loro figli. Lo seminavano nei terreni del loro futuro. Come ha fatto Giuseppe Manzini con la figlia Gianna. Scorrendo i motori di ricerca su internet si scopre che questa frase è la citazione più famosa e più ricorrente del celebre Ritratto in piedi, il penultimo titolo della scrittrice toscana (uscito nel 1971) che ora Mondadori ripubblica negli Oscar. Non si tratta di un romanzo. Nemmeno si può definirla una biografia, però. La celebre scrittrice ha aspettato di essere sulla soglia dei settant’anni per tornare fanciulla e raccontare di quel padre tanto idealizzato, della cui presenza ha potuto godere per pochi anni. Non solo perché morto ancor giovane vittima di un cuore debole e della prepotenza fascista ma anche perché esiliato non soltanto dal governo mussoliniano ma anche dalla famiglia borghese della moglie (e madre di Gianna). Questa nuova edizione si arricchisce della prefazione di Marta Barone e di una postfazione di Cristina Savettieri. Soprattutto in quest’ultima sono evidenziati alcune caratteristiche di quello che può ben definirsi come una pietra miliare del nostro Novecento. Come fa notare Savettieri, il testo di Manzini non è un romanzo ma di certo l’autrice-narratrice “fa ampiamento quello che i romanzieri di solito fanno: esplora lo spazio interiore dei suoi personaggi dandogli voce e immaginandone i pensieri e le emozioni”. In questo modo è del tutto evidente che la Manzini, raccontando il suo rapporto col padre offre al lettore un genere letterario affatto particolare: il ritratto. Genere che sfrutta i procedimenti narrativi del romanzo senza i vincoli rigidi della biografia. Trovando qui una perfetta analogia da quanto teorizzato e felicemente sperimentato da Virginia Woolf, tra i modelli più sfruttati dalla Manzini. Nodo che Savettieri analizza lucidamente: “la Woolf definisce il ritratto come the epitome of a million acts, la sintesi, il precipitato di milioni di atti, qualcosa che cristallizza miracolosamente l’intercapedine sempre mobile che si apre tra ciò che si fa e ciò che si è, tra una vita estroflessa in azioni e la sfera psichica e morale”.
Chi volesse affrontare questo testo troverà una doppia storia d’amore. Quella di una figlia adorante che riscopre il padre con gli occhi della memoria. E quella che racconta di un padre che non dimentica mai di associare ogni suo gesto a un atto d’amore quando si trova in compagnia della figlia dalla quale vive separato. Perché la sua vita abbia significato deve trasmettere alla figlia insegnamenti e valori. Solo questo basterebbe a farne un testo consigliabile. Poi c’è la grande questione del “dettato”. Una lingua letteraria e un procedimento narrativo che alterna diversi tempi verbali e un montaggio degno dei capolavori della Woolf con tempi narrativi disarticolati, incursioni nella materia magmatica della psiche e illuminazioni epifaniche. Ma il modernismo della Woolf non basta. Perché la Manzini, degna erede dei rondisti ci offre una lingua schietta ma ricca. E il lettore di oggi (compreso chi scrive) deve tenersi vicino il vocabolario (o più comodamente il telefonino) per sciogliere dubbi su termini oggi desueti come anfanare (vaneggiare), rèmiga (decisamente più elegante di rèma dal verbo remare), le rèdole (i sentieri) o filugello (baco da seta). Al lettore di oggi (almeno a quello ben disposto) risulterà una lettura piacevole ma impegnativa a un tempo. Con un racconto che si dipana in montaggi sincopati di scene e di voci che nulla hanno da invidiare ai lavori dei nostri contemporanei. Ecco perché questo libro resta una pietra miliare del nostro Novecento. E bene ha fatto Mondadori a riportarlo in libreria.
Sorvolo, poi, sul suo valore politico. Di cui – alla sua uscita nel 1971 – si è molto parlato. Sì, perché la morte di Pinelli e la strage di piazza Fontana erano fatti ancora troppo recenti per non sentire il peso della parola “anarchia”, tanto esaltata e frequente in un racconto che si voleva personale e quasi intimista. Ci penseranno i lettori a cercare dettagli e pezzi del puzzle che costituisce il vero ritratto di Giuseppe Manzini, socialista al fianco di Mussolini, e poi anarchico osteggiato proprio dal governo fascista. Che muore d’infarto dopo aver subito un attacco squadrista mentre si trovava al confino in un paese della Garfagnana.