celluAvete mai sentito parlare di nativi digitali? Sono i nostri figli, nati in un mondo in cui il progresso tecnologico cambia velocemente le abitudini di vita, ma anche il modo di pensare e di vivere la realtà che ci circonda. Le  neuroscienze hanno evidenziato che in questi nativi vengono stimolate aree cerebrali diverse, sollecitate dall’esposizione agli stimoli di app, di Internet,  videogiochi. Il quoziente intellettivo sembra più alto nei nativi digitali rispetto ai cosiddetti immigrati digitali purché (con grande gaudio dei genitori) i primi non si espongano eccessivamente agli stimoli. Sorprendono i nostri ragazzi che contemporaneamente riescono ad ascoltare la musica, a vedere la tv, a chattare e a giocare ai videogiochi. Proprio durante l’incontro “Frontiere della psicoanalisi 2016: le nuove antropologie”, organizzato presso il centro milanese della psicoanalisi “Cesare Musatti”, Laura Ambrosiano, psicoanalista della società Psicoanalitica italiana, ha tracciato un identikit di questo nativo sulla base degli studi disponibili. Per esempio, i nativi mostrano di possedere un sapere enciclopedico più vasto degli “immigrati”. La tendenza è condividere subito tutto, non conoscono la privacy: per loro il concetto di “personale” appartiene a persone che valgono poco. Ci si affida più al gruppo col rischio di non riuscire a costruirsi un’identità sufficientemente solida: il concetto di privato è entrato in crisi. Sicuramente i nostri ragazzi sono più liberi nel pensare perché nel loro mondo non hanno riferimenti a cui obbedire: “la nostra esperienza clinica con gli adolescenti -aggiunge Giuseppe Pellizzari coordinatore delle frontiere per il CMP – ci porta a osservare come il pensiero dei ragazzi tenda ad abbandonare strutture logico-deduttive e strutture etiche strettamente sorvegliate (superegoiche), per  prendere altre strade, in cui prevalgono modalità eccitatorie. Questo può renderli più liberi ma anche più vulnerabili, per esempio, alle dipendenze”.