Ci penso e ci ripenso e continuo a soprendermi. Continuo a chiedermi come sia possibile, come si possano correre una settantina di chilometri ogni giorno per settanta giorni e come ci si possa svegliare all’alba e ricominciare a mettere un piede davanti all’altro. Mi sorprendo perchè so cosa significhi correre una maratona. So bene cosa voglia dire correrne due in una settimana e so come ci si sente la mattina dopo. Ma Alex Bellini mi lascia sempre a bocca aperta. Le sue imprese  sono forse un po’ la via per esorcizzare le mie paure. Come quella del mare aperto. E così anni fa quando lo intervistai prima delle sua partenza per la traversata oceanica su una barchetta a remi, lo lasciai con un in bocca al lupo ma mi rimase  addosso un bel po’ d’ansia immaginadolo di notte da solo in mezzo all’Oceano. Questa volta no. Con la LaNyfootrace l’ansia non c’era.  Solo una profonda ammirazione e un po’ di sana  invidia. Più di 5mila chilometri di corsa, un coast to coast da Los Angeles a New York di quelli che nella mia testa ho già fatto in moto con le luci delle insegne dei motel, le strade infinite, i canyon e qualche Harley che sfreccia e ti saluta lascindo una scia di polvere. Alex Bellini l’ha fatta di corsa. Un passo dopo l’altro, un giorno dopo l’altro, un pensiero dopo l’altro…Sì perchè chissa quante cose gli sono girate e rigirate nella testa in questi due mesi, in tutte quelle infinite ore di fatica. Credo che  comincerà a capire di che impresa sia stato capace solo nei prossimi giorni. Quando potrà ripercorrere tutti i suoi chilometri nei suoi ricordi. Le immagini scorreranno sempre più dolci, diventeranno piacevoli anche le giornate di crisi,  gli infortuni e la stanchezza infinita. E questa corsa impossibile comincerà a mancargli. Anzi già forse un po’ già gli manca. Basta leggere sul sito di  di Jeep people ( www.jeep-people.com) il post di Mauro Talamonti, il reporter che ha seguito Bellini in tutta la sua impresa e al quale “rubo” un paio delle fantastiche foto fatte all’arrivo di New York, per capire che  ai saluti ci saranno tante pacche sulle spalle ma anche parecchi occhi lucidi.  “Mentre scrivo è già finito tutto. E’ mattina, Domenica, siamo intrappolati come ostaggi dietro i vetri della nostra camera di albergo, l’ultimo, a New York. La Jeep è parcheggiata 18 piani sotto di noi, sulla 52ma. E’ ormeggiata come un incrociatore da guerra al molo, coi segni dell’avventura sullo scafo bianco. Ieri Alex è arrivato di corsa a New York partendo da Los Angeles. Sono 5139 chilometri. Ha attraversato stati, deserti, montagne, difficoltà, dolori, paure e momenti di pura gioia. E’ diventato padre per la seconda volta e ha percorso il ponte di Washington per raggiungere Sofia a Manhattan in tempo, prima che Irene si abbattesse sul traguardo di questo infinito viaggio. Di noi rimane questo, mi faccio lavare da un uragano tropicale. Mi faccio purificare e battezzare da questa città in stato di allerta che ho agognato per 70 giorni. Credo che capiremo il senso di tutto tra qualche settimana, forse qualche mese…E chiunque, là fuori, abbia ogni tanto letto queste righe giornaliere può capire cosa significhi, adesso, stare fermi su questa sedia, guardare fuori e aspettare che tutto passi. E che tutto ricominci”.

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