Tre minuti. Tre minuti separano Haile Gebrselassie dalla sua olimpiade. Tre minuti che valgono un caffè oppure il sogno. Un soffio, un respiro, il tempo di un pensiero che racchiude però tutta una vita sportiva. E che rischia di sfuggirti di mano, si svanire proprio all’ultimo quando era quasi lì, un chilometro più avanti. Ma quel chilometro fa la differenza. Quel chilometro per le gazzelle etiopi e keniane che oggi corrono le maratone  senza quasi appoggiare i piedi sull’asfalto sono i mille metri che separano la terra dall’Olimpo, gli uomini dagli eroi. Gebre lassù vuole salire. Ce l’ha in testa e nel cuore ma deve fare purtroppo i conti con i suoi anni, i suoi acciacchi e le sue gambe spremute dai record del mondo. Pochi giorni fa a Tokyo ci ha provato. Al trentaseiesimo chilometro ha dato uno strappo per far capire a ai suoi avversari che il re è ancora lui. Ma non è bastato. Michael Kipyegoti lo ha passato,  sfrontato e irriverente come spesso sanno essere i giovani. Il keniano è andato a vincere 2:07:37.  E così hanno fatto anche Arata Fujiwara che correva in casa ed è arrivato secondo 2:07:48 facendo impazzire i giapponese  e l’ugandese Stephen Kiprotic terzo in 2:07:50. Gebrselassie ha chiuso quarto in 2:08:15 ore. Con una smorfia e il tormento di quegli ultimi mille metri. Tre minuti. Tre minuti che lo separano da Londra e che dovrà in qualche modo limare se vuole salire sul monte degli Dei.

 

 

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