bertone2La differenza la fa un sorriso. La fa una gioia incontenibile che finisce in un balletto per andare a raccogliere gli applausi di tutti quelli che sono lì a Rio proprio per lei. E sono tanti. Catherine Bertone all’arrivo della sua maratona olimpica è il ritratto della felicità. Ed è raro vedere un’ atleta sorridere così dopo 42 chilometri, anche quando vince, perchè la fatica prende il sopravvento. Ma se la differenza la fa un sorriso significa che si è avverato un sogno: “Che era in un cassetto- ha detto l’azzurra subito dopo l’arrivo- ma proprio in fondo in fondo…>. E rischiava di restar lì, come capita a tanti. Ma lei ci ha creduto e soprattutto ci hanno creduto tutti quelli che pensavano che la maratona olimpica se la meritasse. Così alla fine è arrivata. Così alla fine per lei, mamma di 44 anni di due figliolette e medico pediatra che corre per hobby per la Sandro Calvesi di Aosta, il club guidato da Lyana e Eddy Ottoz,  è stato ciò che doveva essere.  Un trionfo olimpico come mai avrebbe forse neanche immaginato. Perchè poi uno fa le maratone, comincia a fare anche dei bei tempi, si immagina in gara a Rio ma forse non ci crede che le possa davvero capitare, perchè poi, quando si accendono le luci, ricominci a fare i conti con la tua vita, la tua famiglia, il tuo lavoro. Invece a volte dai sogni non ci si sveglia. E allora dopo avere strappato il tempo di qualifica  a Rotterdam, la Bertone  alla gara di Rio ha dovuto cominciare a pensarci sul serio. “Tanta passione e tanta collaborazione mi hanno portato qui- ha raccontato ai microfoni della Rai dopo il traguardo del Sambodromo- Sono felice ma adesso non vedo l’ora di tornare a casa perche le mie figlie e la mia famiglia già mi mancano”. Aosta chiama e lei risponde. Come è naturale e come è giusto che sia. Perchè questa olimpica è stata l’avventura di una vita ma la vita, quella che conta di più, resta un’altra. Però i quarantadue chilometri di oggi, che hanno regalato un oro alla keniana Jemima Jelagat Sumgong , resteranno per sempre. Tutti da raccontare come si deve raccontare un sogno. Che si è fatto realtà, che è diventato sudore, fatica e alla fine un sorriso  che vuol dire più di tanti tempi, più di un piazzamento, forse anche più di una medaglia. Non era qui per quello e lo sapeva: “Quando ho visto che già dall’inizio davati allungavano e andavano via ho pensato solo a tenere il mio passo…” Che poi è la sua specialità. Che poi è il suo modo di correre, quello che negli ultimi anni ha fatto la differenza. Un crescendo dal  2011 quando con 2h36′ a Berlino polverizza il suo  primato di 2h43′ . Poi arrivano il 2h.34′ 54″ del 2012 a Francoforte,  il 2h32’46” di Torino nel 2014 e il 2.30’19” di Rotterdam che le vale il pass per Rio. Quasi un miracolo, ma neanche tanto. Per una donna che divide la maratona tra famiglia, figlie e turni in ospedale i miracoli si confezionano solo con terrena tenacia. Una campionessa che più normale non si può, che si allena come fanno tanti tapascioni, alzandosi all’alba, ritagliando tutto il tempo che si può quando si può, che fa sacrifici che molti non capiscono e che ha una passione che molti non comprendono. Però poi alla fine i conti tornano. E lei, 25ma Rio, da oggi non è solo una delle tre azzurre che fanno ” una gara dignitosa”, come ci raccontano i telecronisti . Diventa il simbolo di un popolo che corre. Senza retorica perchè non serve.  Diventa il mito di tutti quelli che la domenica si mettono un pettorale e sognano magari un giorno di andare a correre una maratona olimpica. Non capita sempre di riscuotere i crediti. Però ogni tanto sì. E allora,  quando vedi una maratoneta che arriva al traguardo e sorride, capisci che si è avverato un sogno.