Ghisallo, un museo vivo
Una bella serata di gala per ricordare i primi dieci anni del Museo del Ghisallo è solo uno dei tanti motivi per cui vale la pena di salire fin qui. Fiorenzo Magni, sceso dalla bici, ha fatto ciò che ogni innamorato fa con ciò che ama. Ha fermato i ricordi riuscendo nel miracolo di mantenerli vivi. Il Museo del Ghisallo infatti è la storia di uno sport che però continua a battere e respirare proprio come la passione di chi da Magni ha preso il testimone . Il presidente della Fondazione Antonio Molteni e la direttrice Carola Gentilini si sono rimessi davanti al gruppo. Un lavoro da “gregari”, per far tornare i conti, per non far morire questo luogo che qualche anno fa aveva anche chiuso ed ora timbra diecimila ingressi, più della metà stranieri che da queste parti ci vengono apposta, per capire cosa è stato davvero il ciclismo degli anni in cui ruggivano i Leoni. Un’altra epoca. Anni in cui la Gazzetta dello Sport dedicava una prima pagina intera al trionfo di Ercole Baldini, relegando in un taglio basso l’apertura dei campionati del mondo di calcio in Svezia che ancora si chiamavano Coppa Rimet. Era il 1958, un altro mondo. Fatto di notizie e non di gossip, di pagine scritte di sport che non erano solo le chiacchiere del calcio. Ma il Museo del Ghisalllo è ciò che ti aspetti dal Museo del Ghisallo, un luogo dove il ciclismo è di tutti senza pregiudizi e senza censure. Dalla fantastica Colnago da crono con cui nel 1994 a Bordeaux lo svizzero Tony Rominger firmò il record dell’ora, alla maglia iridata sponsorizzata Motorola indossata da Lance Armstrong nel 1993 a Oslo quando si mise tutti dietro nel mondiale. La maglia del texano è lì, autografata come tante altre perchè, nonostante tutto, anche questa è la storia di uno sport che qui viene conservata senza le ipocrisie di chi, cancellando ciò che sulla strada resta, forse si è solo voluto pulire un po’ la coscienza. E la storia continua. Basta avere la pazienza di leggerla, di cercarla, di andare a scovarla tra le tante maglie rosa appese alle pareti, tra la bici che fu di Bartali, quella che fu di Magni, tra leoni, falchi e sceriffi. Entri, scendi da una rampa che sembra uno tenti tornanti che portano qui su al santuario, ma forse anche allo Stelvio e al Ventoux e ti fermi a guardare una gigantografia di Forenzo Magni tra Alfredo Martini, Ernesto Colnago e Franco Ballerini. Si dice che le foto rubano l’anima. Anche quella dei ciclisti…