normaC’ è chi un pezzo del suo destino lo porta scritto nel cognome. Va così. E uno ci prova anche a sfuggirlo ma poi la strada è quella… Norma Gimondi è la figlia di Felice. Quarantasei anni, avvocato civilista, il ciclismo lo ha respirato da quando era piccolina perché suo papà è stato ed è il ciclismo. Quello della Bianchi e della Salvarani, con tutte le lettere maiuscole, con le maglie rosa, gialle, iridate. Quello che resta. Norma Gimondi il prossimo 14 gennaio a Rovereto proverà a contare i suoi voti per capire se la volata che ha lanciato a Renato Di Rocco per arrivare prima sul traguardo della Federciclimo che rinnova la carica di presidente sarà quella buona. Servirà un bel colpo di reni perché la sfida è doppia: diventare la prima donna a sedersi su una poltrona così importante dopo 131 anni e cambiare la faccia a un movimento che, come spiega con orobica concretezza, «sta perdendo troppe opportunità e ha bisogno di una svolta…».

Sa che è una strada tutta in salita?

 «Sì lo so perfettamente. Però sono pronta e poi le salite mi piacciono… Ho scalato il Mont Ventoux e quando sono arrivata in cima pensando a mio padre e a Pantani mi sono anche commossa…».

Ma questa è un’altra corsa…

«È vero. Ci sono dinamiche elettorali consolidate ma sentivo il dovere di far qualcosa anche perché, da quando la notizia ha cominciato a girare, c’è molta gente che mi ferma e mi chiede di provarci».

E lei poi è un po’ «raccomandata»…

«Direi proprio di no. Il mio cognome è una bella medaglia ma ha due facce. Da una parte mi apre molte porte e mi permette di conoscere gente con più facilità ma dall’altra crea spesso un bel po’ di diffidenza. Perché uno si aspetta sempre chissà cosa dalla figlia di Gimondi. E io spendo del gran tempo per conquistare le persone, per far vedere a tutti che sono lì perché mi chiamo Norma e non perché sono la figlia di Felice…».

E suo padre come l’ha presa la sua candidatura?

«Mio padre non sapeva assolutamente nulla, mi ha spinto un gruppo di amici che avevo conosciuto anni fa a un corso di sport e management del Coni. Mi hanno fatto una corte serrata e alla fine mi hanno convinto. A mio papà l’ho detto quest’estate una domenica quando eravamo a tavola. Ha smesso di mangiare, ha alzato leggermente lo sguardo e mi ha detto che era orgoglioso di me…».

Da dove si comincia?

«Il ciclismo è un patrimonio enorme del nostro Paese che va conservato e rivalutato. Si parte da qui..».

In pratica?

«Il movimento cresce e va intercettato. Serve una Federazione che sappia attirare le imprese, gli sponsor. Serve un sistema fiscale che non obblighi squadre e atleti ad emigrare all’estero. Per prima cosa bisogna cambiare lo Statuto, renderlo più attuale e poi fare in modo che venga aggiornata la legge sul professionismo che è del 1981, praticamente un’altra epoca. Oggi è tutto diverso, servono norme che adeguino i contratti dei corridori soprattutto quando vanno a correre fuori dall’Italia. Ci sono troppi vuoti normativi che si sono creati perché in tutti questi anni il ciclismo è radicalmente cambiato».

E le piace?

«Sinceramente non troppo. Non mi convince del tutto. Mio padre correva da febbraio a novembre ed era sempre in gara, competitivo, non a fare la comparsa. Oggi un campione corre al top quattro settimane l’anno per vincere una corsa a tappe o qualche classica. Poi basta, si eclissa. Così la gente fa fatica ad appassionarsi e il ciclismo sta perdendo la sua identità. Anche le squadre sembrano più attente al business che alla passione che è poi la scintilla che porta la gente sulle strade».

Poi c’è il problema del doping.

«Premesso che il ciclismo in questa direzione ha fatto molto e a oggi possiamo tranquillamente dire che è lo sport dove ci sono più controlli, il doping resta un problema. È la Wada che detta le linee, le Federazioni devono adeguarsi nel modo più rigoroso possibile».

Ma il doping c’è anche tra gli amatori…

«Questo è un altro discorso. Il doping tra gli amatori che partecipano alle gare della domenica, alle gran fondo è un follia, una distorsione incomprensibile. Va detto però che in Italia anche le gare amatoriali sono troppo agonistiche. In Francia, tanto per fare un esempio, gli appassionati si iscrivono alle gran fondo con tutta la famiglia, pedalano per la gioia di passare una domenica di divertimento, si fermano a fare foto, qualcuno anche a mangiare. Noi invece la prima cosa che facciamo alla fine è andare a vedere le classifiche…».

Andrebbero tolte…

«No, toglierle è eccessivo perché un po’ di agonismo ci vuole. Ma bisognerebbe dare a tutti la possibilità di scegliere un percorso magari più corto o più semplice come stanno facendo già alcune gran fondo importanti. Le gare devono diventare una festa, eventi capaci di coinvolgere anche ciclisti meno allenati, famiglie, giovani».

Però già a 13-14 anni nelle squadre ci sono ragazzini e genitori che ragionano professionisti…

«È vero ed è un errore grave. I giovanissimi che si avvicinano al ciclismo dovrebbero innanzitutto divertirsi. Non dovrebbero esserci direttori sportivi o papà che suggeriscono ruoli e tattiche: come si fa a dire a un ragazzino che deve fare il capitano e a un altro che deve fare il gregario? Che sogno è? La bici è fatica e se un bambino pedalando non si diverte come minimo a quindici anni molla tutto».

E poi c’è il problema del traffico sulle strade.

«È un problema enorme. Sa che molti genitori non fanno fare ciclismo ai loro figli perché hanno paura a mandarli sulle strade ad allenare. Come si fa a dar loro torto?».

Lei ha una soluzione?

«Credo che una Federazione per far crescere i ragazzi e tenerli nel movimento debba battere altre strade. Promuovere la mountain bike e il ciclocross che permette di farli allenare non sulle statali o sulle provinciali ma su circuiti chiusi e protetti. A Milano ad esempio si potrebbe tranquillamente realizzare un centro di allenamento alla Montagnetta. Poi quando sono più gradi e sicuri si potrebbe cominciare a portarli in strada».

Ci sono però anche tanti ciclisti che pedalano per fatti loro, non sono tesserati e che però spendono, viaggiano e in Europa muovono un business da 200 miliardi l’anno…

«Sì, la sfida è anche questa. Vanno intercettati. Ci sono movimenti nuovi che non possono più essere ignorati. Movimenti come l’Eroica e tutte quelle gare storiche che si stanno moltiplicando in Italia che portano tanti ciclisti nuovi al ciclismo oltreché ricchezza perché intorno alla corsa c’è il turismo, c’è il mercato delle bici storiche, ci sono i collezionisti, c’è la storia di uno sport ha ritrovato una seconda vita».

Le bici elettriche invece sono un altro mondo?

«Assolutamente no. Le e-bike sono un’opportunità fantastica per avvicinare al ciclismo anche chi proprio non ci ha mai pensato. Persone che mai hanno pedalato e non avevano nessuna intenzione di farlo e invece con una e-bike si ritrovano a fare anche gite di 100 chilometri e poi si appassionano».

Ai «duri e puri» però non piacciono.

«Lo so ma sono il modo per far conoscere e apprezzare il ciclismo anche a chi non salirebbe mai su una bici…»

Le invece ci sale spesso?

«Si è la mia passione, appena posso. Da piccola volevo fare le gare…».

E poi?

«E poi nulla. Mia madre disse che in casa ce n’era già uno e bastava. Però qualche soddisfazione me la sono tolta lo stesso e nel 2004 ho vinto i campionati italiani per avvocati e notai…».

Chissà sua madre?

«Discusse con papà. Credo che lui ci tenesse. Le disse: Te l’ho detto che dovevamo farla correre».