coloPiù che la politica c’entra il buon senso. O forse il business. Il Giro che finisce a Roma in quella meraviglia di città che il mondo ci invidia regala una brutta figura al nostro Paese in diretta mondiale. Buche, sanpietrini, transenne , strettoie e lavori in corso per una ginkana di 115 chilometri da completare su un percorso che ai corridori fa venire i brividi. E allora rallentano. Adagio, piano, più piano, forse si fermano. E allora le telecamere indugiano sulla maglia rosa di Chris Froome e quella ciclamino di Elia Viviani  che trattano freneticamente con i giudici per la neutralizzazione della gara. Troppo rischiosa, troppi pericoli. Ed è un finale da dimenticare.  Qualche allungo, qualche caduta, tante forature, i corridori che si fermano a sgonfiare le gomme, che rallentano, che si staccano e rientrano attaccati alle ammiraglie, che vengono doppiati come capita nelle garette di strapaese. Un caos. Una corsa che diventa una non corsa, altro che passerella finale. E allora viene il mente il Tour.  Vengono in mente Parigi e i francesi con il loro finale ( guai a cambiarlo) sui Campi Elisi. Sempre così, da anni,  da decenni, da sempre. A costruire il fascino di una tradizione che diventa la forza di un evento che anche per questo sembra su un altro pianeta. E non c’entra la politica. Non c’entrano Roma, la Raggi, le buche mal asfaltate, i lavori e chissà cos’altro. E’ un fatto di cultura. Roma vale Verona, Trieste, Verona, Napoli e qualsiasi altra città che nei prossimi anni ospiterà l’ultimo sprint di una corsa che non trova casa per la sua storia e per la sua tradizione ma solo in virtù di un business che la porta laddove più conviene. Così può capitare che finisca non bene, per non dire male. Può capitare che l’ultima volata crei l’imbarazzo di una sceneggiata dove la cronaca non è più quella sportiva. Business is business, ma c’è un prezzo da pagare…