È arrivato un paio di mattine fa sui campi Elisi, quasi all’alba. Nessuna volata. Solo, dopo una fuga di quasi tre settimane. Si è seduto sul ciglio della strada e ha stappato per brindare una bottiglia di champagne. Ca va sans dire… Lachlan Morton ventinovenne australiano di Port Macquarie, una città costiera del Nuovo Galles, ciclista professionista della Ef Education First, ha finito il suo Tour de France. L’ha corso in solitaria perché la sua squadra non l’ha convocato, pedalando per più di 5mila e 500 chilometri e per 18 giorni filati. Nessuna polemica, aveva solo voglia di farlo per fatti suoi. Pianure, salite, discese, Alpi, Pirenei superando oltre 65mila metri di dislivello per 220 ore di corsa. Già lo scorso voleva fare la stessa cosa al Giro d’Italia ma poi il suo direttore sportivo lo aveva messo nella rosa dei partenti e gli era toccato correrlo sul serio. Per la cronaca, alla fine era arrivato 111° a 5 ore e qualche minuto dal Tao Geoghegan Hart che aveva messo dietro tutti un po’ a sorpresa. Ma quella di Morton è una storia di ciclismo che porta su altre strade. E porta lontano. E così qualche settimana fa Bretagna, quando è partito il Tour numero 108, si è presentato anche lui per pedalare ma non in gruppo, non in squadra per dare una mano al suo capitano Hugh Carty. Si presentato a Brest su una bici da viaggio con tanto di portapacchi su cui ha caricato una tenda, un fornello, alcune vettovaglie e la biancheria per affrontare il lungo viaggio. L’idea (la sua idea) era quella di fare un Tour come lo facevano i pionieri all’inizio del secolo, percorrendo tappa dopo tappa tutta la strada dei suoi compagni per arrivare a Parigi qualche ora prima degli altri che poi in realtà ci è arrivato cinque giorni prima. Una fatica assurda che lo ha portato a pedalare quasi tutto il giorno e anche qualche notte senza nessuna giornata di riposo. E ovviamente niente hotel, niente pranzi e cene organizzati dai nutrizionisti, niente rifornimenti in corsa, niente body lavati di fresco, bagni ghiacciati e massaggi, niente medici e fisioterapisti. Niente di niente, come una volta all’inizio del XX secolo quando le tappe iniziavano prima dell’alba ed erano senza tempo. «Voglio ritrovare lo spirito originale del Tour – aveva spiegato l’australiano in una intervista al Guardian pochi giorni prima del via – quando i ciclisti pedalavano per tutta la notte, si riparavano le bici da soli, dormivano male nei campi e nei fossati e mangiavano dove e quando potevano…». E così è stato. Sembra una punizione ma non lo è. Chi ama il ciclismo d’avventura va su queste strade e l’australiano si è già cimentato su sfide di lunga distanza: tre anni fa ha corso la Kokopelli Trail negli Stati Uniti, nel 2019 ha percorso tutta la Gran Bretagna, da nord a sud, per oltre 2mila chilometri e l’anno scorso si è schierato alla partenza della Transibérica. Una sfida personale, un viaggio dei sogni che però ha avuto anche una finalità solidale ed è servito a raccogliere fondi per la Fondazione World Bicycle Relief, la Ong creata 15 anni fa dall’amministratore delegato di Sram, che produce biciclette per i Paesi africani donandole a chi ne ha bisogno e formando squadre in loco per la manutenzione e la riparazione. E a dare una mano a Morton come sponsor c’erano, ovviamente la sua squadra, la EF Education First e Rapha che hanno già donato 500 biciclette per sostenere un progetto che ha già raccolto più di 170.000 euro. È un altro ciclismo. Probabilmente più romantico. Un ciclismo che torna indietro nel tempo o che forse se ne va parecchio più avanti, lontano dalle logiche dei grandi sponsor, dal rollerball che sono diventati gli arrivi delle grandi corse, da radioline, frenesia e business. È un ciclismo più romantico o forse solo più folle. Perché, come ha detto scherzando Jonathan Vaughters, il team manager della Education Fisrt quando gli hanno chiesto dell’idea di Lachlan: «Non so cosa abbia in mente e non credo che nessuno di noi lo sappia. Ma la terapia non ha funzionato… È fuori di testa».