E’ il giorno dell’Alpe d’Huez  al Giro di Francia e il suo nome su uno dei tornanti non c’è. Ma per quattro volte l’ha scritto nella bacheca più importante del Tour. Poi tre anni fa nel Giro del Delfinato è successo quel che è successo, si è schiantato contro un muro in ricognizione e ha rischiato la pelle, altrochè ciclismo, altrochè Tour e la vita è cambiata. Così ora Chris Froome, non è più quel Chris Froome che frullava. Ora arranca, non molla, ci crede e ci prova. Chilometro 13, 7 alla cima dell’Alpe. Froome c’è. E’ con altri quattro compagni di fuga ed è bello ritrovarlo qui. Lo stile è lo stesso, un bel po’ sgraziato con la testa che ciondola, le spalle che si agitano. Anche lo sguardo è lo stesso,  basso sulla ruota davanti ma in realtà fisso sui watt del ciclocomputer che una volta erano legge per tutti. Oggi no. Non più.  A dieci chilometri dalla vetta Tom Pidcock, britannico di Leeds, oro olimpico nella mountainbike, apre il gas della sua gioventù e se ne va.  Adieu.  Più o meno la stessa cosa fa sudafricano Louis Meintjes che però non decolla e per un po’ resta lì a una cinquantina di metri. Primo, secondo e terzo, così anche al traguardo. Che per Froome però  è una vittoria. Si dice sempre così in questi casi. Ma stavolta no. Un terzo posto qui,  il terzo posto di Froome, sono una storia che un po’ va raccontata e che si riannoda, sono un lampo, una luce, sono i tempi supplementari di una grande partita che il keniano inglese si ostina a non far finire. Con la testa e con il cuore, con i suoi figli che gli fanno il tifo a bordo strada, con un ritorno al Tour che tre anni fa sembrava fantascienza. E forse lo è. Dopo lo schianto al Giro del Delfinato, dopo le fratture, dopo le lesioni interne ha rischiato di non raccontarla più la sua storia. Non ci credeva nessuno che il “baronetto”  potesse tornare sulle strade di Francia ma lui sì. Non ci credevano perchè  dopo settimane di ospedale, dopo una riabilitazione infinita e dopo un recupero agonistico a dir poco complicato non era da tutti ricominciare praticamente da zero. Ma lui ci ha sempre creduto: «La cosa più semplice era fermarsi -spiegò anni fa in una intervista alla televisione inglese –  ma non volevo finire la mia carriera per una caduta. Così quando ho saputo che avrei potuto recuperare completamente ho deciso che ci avrei provato…”.  Era tornato alle gare tra mille difficoltà e mille sacrifici ma senza i risultati che forse lui pure si aspettava perchè uno che il Tour l’ha vinto quattro volte, che ha vinto due Giri di Spagna e un Giro d’Italia e che è uno dei soli sette corridori che hanno nel loro palmares i tre grandi Giri,  fa fatica a resettare la sua testa quando il fisico non gli sta più dietro. E più o meno così era andata anche l’anno scorso, non più capitano, gregario, chioccia,  comunque in retroguardia, a mischiarsi nell’anonimato di un gruppo che una volta non gli stava dietro.  Che per uno che  cinque anni fa  era stato convocato a corte da Sua altezza la regina Elisabetta che gli aveva conferito per  meriti ciclistici l’onorificenza dell’Ordine dell’Impero Britannico non è un bel pedalare. Ma il keniano è ancora alla ricerca di qualcosa.  Non un Tour, non un Giro, forse neppure una vittoria. Va cercando se stesso e forse un po’ della sua grandezza come un’araba Fenice che rinasce dalle sue ceneri. E rinasce. E come capita sempre, quasi per miracolo, spariscono tutte le antipatie, perchè chi vince tanto è sempre un po’ antipatico. E, se qualche anno fa quando saliva e scattava c’era anche chi sputava e gli tirava l’urina addosso, oggi non succede più: sono solo applausi, come dev’essere. Come avrebbe sempre dovuto essere.