L’elogio della lentezza è un alibi, tanto per chiarirsi subito. La logica dello sport impone infatti  di andare veloci. Sempre più veloci. Per vincere, per conquistare una medaglia, per guadagnare, per dare un senso i propri allenamenti, per chi ha creduto in te e anche ( forse soprattutto) per se stessi. C’è una velocità oggettiva fatta di tempi e di numeri. E poi c’è una velocità soggettiva, a misura, a sensazione. Ognuno ha la sua di velocità e anche chi va piano a suo modo va veloce. Basta intendersi. A vent’anni si vola, a trenta anche poi piano si comincia a rallentare. Così arriva il giorno in cui la velocità diventa un’ipotesi possibile (o impossibile), diventa un valore indefinito, una variabile trascurabile, un dettaglio. Che differenza c’è tra correre e una maratona o finirla?  Tra arrivare al traguardo di un ironman sotto le 12 ore o trascinarsi al traguardo fino a notte fonda? C’è una differenza enorme, sono due sport diversi. E’ ovvio. Ma è proprio qui che ci viene in aiuto la lentezza. La lentezza va in linea retta, procede per segmenti. Ecco, «segmento» è  la parola chiave. Per sopportare il tempo che si consuma e ci consuma, conviene spezzettarlo, sbocconcellarlo, ridurlo in frammenti, masticarlo a lungo. Così lo possiamo digerire meglio. Come la fatica. Non più tutta di un fiato ma a pezzetti, senza fretta. In un certo senso assaporandola e godendosela.  Così che si capisca bene di cosa si tratta. Così da farla accettare alla nostra testa che a ragion di logica la rifiuta. Ed è forse proprio per questo che certe fatiche quando si è giovani non si ha voglia di farle. Ci si pensa dopo, con il passare degli anni, quando si va un po’ meno veloci, quando si va sempre più piano ma quando forse si ha più coraggio. Ed è proprio per questo che viene da elogiarla ( la lentezza).