Da Sinner a Pogacar ad Akhwari: il senso (perduto) di un’olimpiade
Jannick Sinner non andrà a Parigi fermato da una tonsillite. Non ci andrà neppure Tadej Pogacar, sfinito dalle fatiche di Giro e Tour ma forse, come dice qualche malalingua, per ripicca verso la Federazione slovena che non ha convocato la fidanzata che meritava più di altre. Non ci sono più le olimpiadi di una volta o forse le olimpiadi per gli atleti non sono più quelle che, per chi sognava di andarci, erano le olimpiadi di una volta. Per carità: è cambiato il mondo, è cambiato lo sport, sono cambiati i campioni che ormai sono meccanismi di ingranaggi costosi e complessi con agende più fitte di quella di un capo di stato. Atleti che competono esclusivamente per vincere, che fanno fatica a pensare di presentarsi ad un appuntamento se non sono al cento per cento, che non prendono neppure in considerazione l’idea di partecipare se le percentuali di vittoria non sono consistenti. E si può capire. Però fa un po’ strano sapere che un’influenza, la stanchezza, un’indisposizione possano valere la rinuncia ai Giochi. E’ sempre stato così? E così adesso? E allora vale la pensa di raccontare la storia di John Stephen Akhwari, atleta della Tanzania che nel 1968 arrivò al traguardo della maratona olimpica a Città del Messico malconcio e lontanissimo dai primi. Una storia che spiega che nello sport spesso non vince chi arriva primo, non chi fa il crono migliore o chi mette al collo medaglie. Che racconta la tenacia, il sacrificio, la voglia di non arrendersi alle prime difficoltà, ma anche alle seconde, alle terze. Che spiega come una sfida, una corsa, una maratona possano improvvisamente diventare qualcos’altro, imprese che si consegnano alla storia, patrimonio della gente comune che , come accadeva nel mito greco, si tramandano nei racconti. E la vicenda di Akhwari sta lì a testimoniare tutto ciò. Come si possa pur non avendo vinto nulla ricevere la medaglia d’onore come eroe nazionale del suo Paese che a suo nome ha addirittura fondato John Stephen Akhwari Athletic Foundation, un’organizzazione che appoggia la formazione e l’allenamento degli atleti tanzaniani per farli partecipare nei Giochi Olimpici. E’ il pomeriggio del 20 ottobre quando stanno per calare sole e sipario sulla XIX edizione dei Giochi . Come sempre con la maratona. Finita la cerimonia di chiusura gli spettatori ed i partecipanti cominciano ad abbandonare lo stadio olimpico quando con il numero 36 entra nel tunnel Stephen Akhwari pastore africano, padre di 12 figli e modesto maratoneta. Davanti agli sguardi increduli di chi si è attardato sugli spalti, inizia il suo ultimo giro di pista. Pochi forse si rendono conto di chi sia esattamente, anche perchè la maratona è finita dal più di un’ora, già è stato ufficializzato l’ordine d’arrivo, già è stata fatta la premiazione con inni e bandiere e Wolde, Kimihara e Ryan, oro, argento e bronzo, sono già sulla via dei loro alberghi. Ma parte un’ovazione spontanea per il più malconcio maratoneta che una maratona olimpica consegni alle poche telecamere rimaste sul prato dell’olimpico. E così gli operatori, senza sapere neppure chi sia, cominciano a riprenderlo. Ne avevano visti di maratoneti disidratati, deliranti, trascinati via o sostenuti a braccia, distesi su una barella, tremanti o bollenti. Da sempre la maratona aveva consegnato le immagini di rese drammatiche, di ritiri e bandiere bianche. Ma come quell’africano con il viso sfigurato da una smorfia di fatica mai, con il sangue che gli si è seccato addosso, con un ginocchio, il destro, fasciato alla bene e meglio, con una spalla fratturata che non riesce a tenere dritta e gli trascina verso il basso anche il capo. E Va avanti. Spingendo la gamba sinistra e trascinandosi quella destra che sembra quasi disarticolata, a stento misurando i passi per il timore di cadere. Per paura di cadere di nuovo come gli era capitato al 19 chilometro quando urtando altri due atleti è rovinato sull’asfalto rompendosi in pezzi. Un dolore atroce, da togliere volontà e fiato che, da quelle parti ad oltre 2 mila metri di altitudine, è già pochissimo. Però va. Pretende di finire gli ultimi 400 metri del suo giro olimpico. Pretende di fare ciò che hanno fatto gli altri. Il pubblico si ricompatta. Prima distratto poi sempre più attento e partecipe. Anche chi era già sulla via di casa capisce che sta succedendo qualcosa di speciale e torna sui suoi passi. E applaude. Applaudono tutti. Sono davanti ad un esempio di coraggio che sta per diventare una leggenda. Stephen Akhwari viene soccorso e ricoverato in ospedale dove, dopo averlo rimesso insieme, i medici gli permettono di affrontare giornalisti e televisioni. Gli chiedono tutti perchè , ridotto così, non si sia ritirato e la risposta è formidabile nella sua semplicità: “Il mio Paese mi ha pagato un viaggio di 10mila chilometri perchè io finissi la gara, non per ritirarmi. Non si può abbandonare una gara olimpica soprattutto se senti la responsabilità di rappresentare un popolo…”.