Viste le recenti polemiche sulla “lettura felice”, forse è meglio tornare a porre l’attenzione su un capolavoro riconosciuto qual è appunto Madame Bovary di Gustave Flaubert (1821-1880). Per chi non lo possiede, e ha voglia di leggerlo, gli scaffali delle librerie sono pieni di ottime edizioni. Tra le tante segnalo la versione integrale, nella traduzione di Ottavio Cecchi, pubblicata proprio quest’anno da Newton & Compton. E in alternativa, sempre per i tipi della casa editrice romana, il Flaubert “economico”della collana Mammut, che contiene oltre al primo grande romanzo dello scrittore francese (uscito in Francia nel 1856) anche gli altri titoli necessari per una comprensione esaustiva della sua poetica e della sua fama letteraria (da L’educazione sentimentale a Bouvard et Pecuchet). Perché riportare l’attenzione su Flaubert? Semplicemente per tornare a parlare del bovarismo che nell’ultimo post di questo blog è stato mal compreso. Il faticoso, e a tratti ridicolo, matrimonio tra Charles Bovary e la “romantica” Emma, è uno spaccato perfetto non soltanto di quella che evidentemente era la vita di provincia della Francia di metà Ottocento ma anche delle insidie che si celano dietro un’arrendevole passione per le romanticherie e le costruzioni fantastiche della nostra mente. Il giovane Flaubert già nel suo primo (e insuperato, per molti aspetti) romanzo sfrutta con una genialità che non ha pari una semplice storia di corna e di banali invidie sociali per costruire il manifesto del lettore critico. E’ infatti per questa sua corrosiva ironia, con la quale fa strame di gran parte del pubblico dei feuilleton, che oggi possiamo ancora leggere, e con gusto pieno, questo romanzo. Certo, è scritto divinamente: grandi raffinatezze stilistiche, perfetta padronanza del mezzo romanzesco e profondità psicologica elargita con maestria. I lettori di oggi, però (che certo non sono più smaliziati di quelli di ieri, ma al massimo più distratti), possono goderselo pienamente soltanto se lo prendono per quello che ancora è: un manifesto contro la credulità e contro appunto il bovarismo, che potrebbe essere sintetizzato come quella malattia che ci annebbia la vista, ci ingrossa il cuore, e ci fa credere che tutto può accadere, soprattutto quello che noi più agogniamo e desideriamo, basta che il desiderio sia profondo e “autentico”, senza ovviamente pensare per un solo attimo che una cosa, per essere conquistata, sarebbe il caso di andarsela a prendere e magari faticare pure su quel tragitto a volte lungo e mortificante.

Il lettore felice (quello che abbiamo citato nel post precedente) sarà ancora più felice quando si immergerà nelle pagine di questo capolavoro della letteratura francese, purché lo faccia con la consapevolezza che lo stesso romanzo è un antidoto a non prendere troppo sul serio quella sospensione di incredulità che in tutte le forme fabulatorie di intrattenimento (dall’opera al teatro, dal cinema al romanzo) ci viene richiesta come condizione preliminare essenziale. Il rischio, ammonisce Flaubert, è di finire come la povera Emma. Tanto le stava stretta la sua vita che se ne è letteralmente “inventata” una fatta di romanticherie e fughe dalla più tetra (e prosaica) realtà.

Basta leggere una delle tante descrizioni che lo stesso Flaubert offre della sua sfortunata eroina: “Aveva bisogno di trarre una specie di profitto personale dalle cose, perciò respingeva come inutile tutto quello che non contribuiva a saziare immediatamente il suo cuore. Aveva un temperamento più sentimentale che artistico e perciò cercava emozioni, non paesaggi”.  Non bisogna, insomma, cedere alle svenevoli fughe verso i mondi della fantasia letteraria, se non sappiamo, avverte il giovanissimo autore, ricordarci che la felicità delle cose reali si conquista a caro prezzo. Almeno al prezzo di un sacrificio altrettanto reale e materiale. E che le altre persone (come i personaggi di Leon Dupuis e Rodolphe Boulanger) non sono proiezioni dei nostri desideri, ma coacervi perfettamente autonomi e indipendenti di volontà e desideri difficilmente riducibili a etichette.

La cosa che, però, renderà la lettura di questo capolavoro pienamente godibile è sapere che Flaubert non si era certo messo su un piedistallo per giudicare con sufficienza le persone di buon cuore. Al contrario aveva detto che buona parte di questa forma blanda di dissociazione che si era diffusa come una sorta di pandemia tra le lettrici di feuilleton era provocata dalle pose e dalle leggerezze proprie della sua categoria. Tanto che restò celebre la frase con la quale chiuse la sua stessa arringa difensiva nel processo che lo vedeva imputato di oscenità: “Madame Bovary c’est moi”! Solo noi che siamo stati avidi lettori, disponibili ad accettare tutto pur di viaggiare nella fantasia e di atterrare incolumi nel mondo della finzione letteraria possiamo capire chi era davvero la signora Emma. A differenza della suicida protagonista di Flaubert noi però dobbiamo godere con intelligenza del frutto del lavoro degli scrittori. E non cadere nel ridicolo del quale spesso siamo i primi a ridere se riguarda gli altri.

Insomma forse la lettura di questo romanzo dovrebbe essere vietata ai minori, cioè a quei lettori che ancora non sono entrati nell’età adulta della consapevolezza di quanto la letteratura sia un universo delle possibilità non lo specchio dei nostri desideri. Per tutti gli altri, invece, è una lettura caldamente consigliata.

 

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