In questo post oggi parliamo di Roberto Saviano. Un classico? Ovviamente no. Un autore da catalogo? Probabilmente lo diventerà. D’altronde il suo debutto (Gomorra, Mondadori) è entrato nelle case della maggior parte dei lettori forti e di tanti lettori occasionali. Saviano ha avuto il merito di creare un genere. O meglio di trasferire sui nostri lidi un genere. Quel nuovo giornalismo che ha avuto in Truman Capote e Norman Mailer i massimi campioni. Basta citare Wikipedia per offrire qui una definizione puntuale: “Il new journalism prevede l’introduzione di motivi tipici della narrativa, capaci di catturare il lettore, nelle strutture del giornalismo tradizionale. Il risultato sono opere innovative dal punto di vista del linguaggio e ibride rispetto alle definizioni precedenti”.

E Saviano svolge diligentemente il suo compito. Con uno stile, oltretutto, molto trascinante. Quindi onore al merito. Tanto più che le sue parole sono diventate “armi”. Le sue denuncie hanno fatto breccia. E sulla sua testa è caduta nientemeno che la “fatwa” della Camorra. Segno che l’intellettuale ha svolto pienamente il suo lavoro e ha sfruttato al meglio e con grande coraggio i suoi strumenti professionali.

Da allora, era il 2006, Saviano è protetto dallo Stato. Nel 2008 è andato addirittura a vivere all’estero per un periodo su consiglio delle autorità di polizia visto le pressanti minacce. Quindi sul suo coraggio, almeno su quello, non c’è da obiettare. Eppure si sobbalza sulla sedia quando, a sette anni di distanza, si arriva a leggere fino in fondo un articolo intitolato A Willy il Coyote è scappato Beep Beep, pubblicato il 22 agosto sul settimanale L’Espresso. L’articolo affronta una piaga endemica della cultura letteraria nostrana: l’opportunismo, mescolato a un’insana invidia, di coloro che vivono nel suddetto milieu ma non ne sono che figuranti muti. Abbiamo aspettato tutto questo tempo per commentarlo nella speranza di vedere qualcun altro farlo. Ma niente. Il suo j’accuse ironico-strafottente non ha sortito effetti.

E ora elenchiamo i perché che ci hanno lasciati perplessi di questo suo divertissement giornalistico. Prima di parlare e con dovizia di dettagli di questo sotto-genere della società letteraria, Saviano offre un preambolo dove sentenzia (è il caso di usare proprio questo termine) su cosa debba essere un vero intellettuale finendo per elogiare  persone precise. Con tanto di nomi e cognomi, Tiziano Scarpa, Helena Janeczek e Antonio Moresco (scrittori), Antonio Franchini e Mario Desiati (editor e scrittori). Goffredo Fofi (critico militante) e Carla Benedetti (critico e accademico). Persone diverse tra loro ma che hanno insegnato al Nostro “la responsabilità della parola”. Per incensarli ancor meglio continua dicendo: “Non ho mai sentito da loro crudeltà, ferocia nell’affermarsi e nel delegittimare”.

Archiviata la pars construens del pezzo ecco il tiro al bersaglio. Saviano offre il ritratto, impietoso, crudele e delegittimante dello scrittore ambizioso ma poco apprezzato, ipocrita, opportunista e privo di idee originali. Quello insomma da cui non andrebbe mai a lezione. E la cui vicinanza vive con fastidio evidente. Non fa nomi, pur regalando un ritratto fin troppo realistico. E soprannomina il tapino (preso a paradigma di una categoria) Willy il Coyote. “Sognano copertine e prime serate – scrive Saviano – ma, se non le hanno, considerano volgare per uno scrittore questa visibilità popolare. Non comprendono che il successo (Beep Beep) non può essere acciuffato con queste strategie”.  E poi in chiusura: “Osservarli è come vedere il vero Willy il Coyote in azione: alla fine dell’ennesimo episodio resterà solo un’impronta sulla terra arsa dal sole. Attorno a cui si chiuderà per l’ennesima volta il cerchio nero dello schermo”.

E ora vien da chiedersi. Ma come? Questo giovane e promettente scrittore ha il coraggio di denunciare pubblicamente i camorristi con nomi e cognomi e poi si ferma di fronte a quattro scrittorucoli di niente talento e scarso valore? Eppure i suoi sodali e coloro che hanno un ruolo preciso nel salotto buono dell’editoria li elogia pomposamente e chiaramente! Opportunismo il secondo e scarso coraggio il primo, verrebbe da commentare maliziosamente. E di fronte al nostro stupore ci sovviene una fulminante battuta di Woody Allen: “Gli intellettuali sono come la mafia: si uccidono fra loro” E, aggiungeremo noi, lo fanno proprio come i mafiosi: omertosamente.

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