La notizia mi ha scosso, ma non poi tanto. Se hanno sentito la necessità di ritradurre Dostoevskij, allora – penso – possono avvertire l’urgenza di offrire nuova voce anche a Salinger. L’Einaudi ha infatti deciso di dare una rinfrescata al Giovane Holden. Non un romanzo qualsiasi. Bensì uno dei più godibili long seller della storia letteraria americana. Un romanzo di formazione che parla di ribellione e amore, di sentimenti e sogni. Un romanzo, per paradosso, poco originale ma che combina con una miscela davvero esplosiva linguaggio, descrizioni, situazioni grottesche e – soprattutto – l’umanità di personaggi davvero memorabili. A cominciare, ovviamente, da Holden Caulfield.

La nuova edizione è stata affidata a uno dei traduttori migliori che offre il mercato: Matteo Colombo. Dopo aver dato voce (italiana) ai personaggi di Palanhiuk e DeLillo, si è distinto per le traduzioni dei romanzi di Jennifer Egan. Dalla sua Colombo non ha soltanto grande competenza, versatilità e una duttilità linguistica impressionante, ma anche la giovane età. Fattore determinante, visto che uno dei compiti essenziali sarà quello di trovare il registro giusto per conservare autenticità e spontaneità alla voce del giovane Caulfield.

La nuova versione del Giovane Holden sarà presentata al Salone del libro di Torino ai primi di maggio.  Intanto questo post è l’occasione per ricordare la prima traduttrice italiana di Salinger. Adriana Motti, scomparsa da un lustro all’età di 85 anni. Era nata infatti a Roma nel 1924 e oltre al suo prezioso lavoro di traduttrice per Einaudi viene ricordata anche per  il suo legame con Giacomo Debenedetti.

In un’intervista rilasciata per Diario nel ’99 Adriana Motti aveva confermato che libri come quello di Salinger sono capaci di cambiarti la vita. E nel suo caso era successo non solo con la storia di Holden Caulfield ma anche con i romanzi di Karen Blixen. L’articolo è molto interessante perché la Motti ricorda i segreti delle traduzioni e gli aneddoti legati a un lavoro tutt’altro che facile. E con una punta di orgoglio rivendica anche una “libertà” molto personale, coniando un’espressione che di lì  in poi verrà molto usata: “Lui se l’era stantuffata sui sedili della macchina”. Per il resto la signora Motti ricorse all’aiuto della famiglia: “Mi son dovuta adeguare, e chiedere ai miei nipoti: in americano poteva essere più sobrio, aveva lo stile di Salinger che lo sosteneva, in italiano io dovevo reinventarmelo”.

L’edizione tutt’ora  in libreria, traduzione a parte, offre al lettore italiano una spiegazione del titolo. Come tutti sanno, quello originale è ben diverso: The Catcher in the Rye. Un’espressione intraducibile da noi. Anche se non è firmata, la nota che accompagna il testo in italiano è stata redatta nel 1961 (anno della prima edizione in Italia)  da Italo Calvino. E offre un’esauriente spiegazione non solo del titolo originale ma anche del motivo che ha spinto l’Einaudi a scegliere Il giovane Holden.

Calvino scrive che al titolo originale si fa “riferimento di sfuggita in due passi del romanzo”. E quel “di sfuggita” può far cadere in errore il lettore. Perché in effetti uno di questi passaggi in cui si parla di catcher (cioè colui che prende o afferra) e il campo di segale (rye) è probabilmente la chiave stessa del romanzo, il suo nodo centrale. Il protagonista, Holden, sta confessando alla sorellina Phoebe quello che forse è il suo più recondito desiderio. Un desiderio nato proprio ascoltando una vecchia canzone tratta da una poesia di Robert Burns. “Mi immagino sempre tutti questi ragazzini che fanno una partita in quell’immenso campo di segale eccetera eccetera. Migliaia di ragazzini, e intorno non c’è nessun altro, nessun grande, voglio dire, soltanto io. E io sto in piedi sull’orlo di un dirupo pazzesco. E non devo fare altro che prendere al volo tutti quelli che stanno per cadere dal dirupo, voglio dire, se corrono senza guardare dove vanno, io devo saltar fuori da qualche posto e acchiapparli. Non dovrei fare altro tutto il giorno. Sarei soltanto l’acchiappatore nella segale e via dicendo. So che è una pazzia, ma è l’unica cosa che mi piacerebbe veramente fare. Lo so è una pazzia”.

In effetti è più che un passaggio. Con questo ragionamento, con questo pensiero, Holden ammette il suo superamento della giovinezza. La sua necessità di difendere i sogni e la spensieratezza dei bambini. Per la prima volta vede oggettivato il suo stesso ricordo idealizzato dell’infanzia: un’interminabile e noncurante partita di baseball in un campo di segale, confinante con un pericoloso burrone. L’essenza della prima età è tutta qui: nell’idea che si possa continuare a giocare con la certezza che alle proprie spalle ci sia sempre l’adulto che ci impedisca di precipitare giù, nell’età del dolore, nell’età adulta. Il catcher, appunto. Quello che Holden, alla fine di questo romanzo di formazione, è diventato. Un “acchiappatore nella segale”.

 

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