Sicuramente oggi George Eliot (Marie Anne Evans) sorriderebbe a leggere delle polemiche tutte interne al Partito democratico per la composizione del governo Draghi. Polemiche nate dalla constatazione che il partito di Zingaretti non può vantare nemmeno una ministra. “Ma come!” tuonano le dirigenti dem “proprio il nostro partito non è riuscito a esprimere ministri donna? Proprio noi che abbiamo fatto della parità di genere una battaglia ideologica?”
Riderebbe di gusto Marie Anne. Riderebbe di questo stupore e di questo sconcerto. Riderebbe, o almeno sorriderebbe. Perché si ride, o almeno educatamente si sorride, dell’ingenuità di chi vuole elevare a battaglia ideologica una battaglia che, almeno per l’autrice del celebre romanzo Middlemarch (ma non solo) non ha niente di ideologico ma ha piuttosto a che fare con il naturale procedere della vita, dove convenzioni e leggi sociali vengono lentamente modificate dall’uso e dall’evoluzione. E che non c’è bisogno di imporre dall’alto una regola che separa e giudica. E che aggiudica ruoli e competenze. Basta il merito, unito alla pazienza di saper aspettare.
E nel suo romanzo più famoso (insieme con Il mulino della Floss), George Eliot ci regala personaggi esemplari in tal senso. Ci offre, infatti, un romanzo in cui i protagonisti sono sì il prodotto del milieu in cui sono cresciuti ma che sfruttano ciascuno a suo modo la libertà delle proprie scelte morali per riscattare una condizione disagevole o semplicemente per migliorare la propria vita.
Soprattutto il mondo femminile di Middlemarch (noi ci serviamo dell’ottima edizione Oscar Mondadori con la traduzione di Michele Bottalico) è popolato da eroine che si muovono solo all’apparenza un passo dietro al loro uomo o dietro al gruppo sociale di appartenenza. In verità riescono a essere determinanti proprio come la loro creatrice che ha consegnato con questi “bozzetti di vita di provincia”, poi riuniti in un unico grande e potente affresco, un capolavoro del realismo vittoriano che nulla ha da invidiare a autori del calibro di Thackeray o a Jane Austen. E che ha ottenuto il plauso di una lettrice di gusti difficili come Virginia Woolf (“uno dei pochi romanzi inglesi veramente per adulti”).
La profondità dello sguardo dell’autrice fa pensare a Henry James o a Marcel Proust. La sua divertita ironia (leggera e tra le righe) ricorda un maestro come Chesterton. Molti detrattori l’hanno accusata di assumere un tono marcatamente didattico, soprattutto nell’analizzare le dinamiche sociali. Eppure il suo sguardo sull’intelligenza e il carattere femminile raggiunge profondità davvero poco esplorate nel mondo della letteratura moderna. E quando c’è una lingua che aiuta, quando il talento della penna si produce in fulminanti descrizioni e aforismi, questo romanzo risulta davvero prezioso (più per la sua unicità che per la rarità del modello). A questo proposito mi piace ricordare soltanto una bella definizione che il narratore (ma dovremmo dire narratrice per quanto sia simile all’autrice nel carattere e nella sensibilità) descrive il pensiero del dottor Lydgate a proposito di miss Dorothea (personaggio che emerge per personalità e originalità da questo romanzo corale): “Sembra possedere ciò che non ho mai visto in una donna… una fonte di amicizia per gli uomini… un uomo riesce a sentirla amica”. Insomma il dottor Lydgate vede in Dorothea un “compagno” un “sodale”, in una semplice parola un “pari”. Senza bisogno di scomodare le quote rosa e senza tanti appelli su giornali e social.

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