Nel giorno in cui la procura antidoping del Coni chiede la squalifica a vita di Danilo Di Luca  trovato positivo all’Epo ad un test del 29 aprile scorso le notizie che colpiscono sono di qualche giorno fa. Due per la precisione. La prima, la più angosciante, era quel messaggio con scritto “addio mondo” lanciato in rete da Mauro Santambrogio vittima di una depressione dopo che era stato trovato positivo al Giro in un controllo fatto nella tappa del 4 maggio a  Napoli. Pù che un cinguettio uno straziante grido d’aiuto fortunatamente raccolto da molti suoi amici che lo hanno contattato, rincuorato e fatto riflettere. Ma il dramma resta. L’altra è invece un duro atto d’accusa lanciato da Philipphe Gilbert, non un peone ma un grande che ha vinto classiche e campionati del mondo. In una lettera aperta, che ha pubblicato sul suo sito ufficiale, il belga ha messo alla gogna gli organizzatori delle gare di ciclismo che, in un periodo storico «di grande lotta al doping, ci chiedono troppo». «Vi sono grandi e sempre più profonde differenze fra quello che i corridori sono in grado di dare e quello che ci viene proposto ogni anno – scrive Gilbert, che gareggia con la maglia della Bmc -. Le  stagioni sono ’pazzè, per il numero delle corse e per la loro durezza. Gli organizzatori fanno a gara per avere il maggior numero di metri di dislivello, la salita più lunga, la più ripida o ancora la tappa più lunga: hanno lo scopo di  stabilire un record e di far parlare della corsa che hanno allestito».  Gilbert lancia accuse anche alle condizioni in cui si affrontano le gare ciclistiche, com’è accaduto quest’anno in varie circostanze: il freddo e la neve della Milano-Sanremo, il caldo asfissiante del Giro della California. «In  entrambe le circostanze, alla vigilia, i media invitavano la gente a evitare spostamenti inutili. Invece, a noi hanno chiesto di continuare a dare  spettacolo, malgrado i rischi per la nostra salute». Un bell’atto d’accusa che dovrebbe far riflettere un po’ tutti. Certo, nella corsa al doping, i corridori hanno forti responsabilità. La vanità, i guadagni, la vittoria in un mondiale o in una grande gara a tappe che  ti sistemano per la vità fanno sì che il rischio valga la candela. Ma è tutto il sistema che va un po’ “calmierato”. E in questo senso Brian Cookson, il nuovo presidente dell‘Uci, l’unione ciclistica internazionale, rappresenta qualcosa in più di una speranza. Dopo quasi sette anni il ciclismo mondiale cambia guida e si spera anche strada. Via l’irlandese Pat McQuaid, dentro questo architetto  di 62 anni che  ha  fatto rinascere il ciclismo inglese, portandolo al “miracolo” attuale di 19 ori olimpici e 2 Tour. E sull'”uomo del miracolo” punta molto tutto un movimento che ha la disperata necessità di riconquistare credibilità e appassionati. Mai come in questo caso vale una frase fatta e ormai spesso usata a sproposito: “buon lavoro”

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