GARMIN_TRIENNALE 72I premi sono tutti uguali. Uno sale su un palco, stringe una mano, sorride, dice qualcosa che di solito non resta in mente a nessuno, ritira e torna a sedersi tra gli applausi. Va quasi sempre così. Poi capita che invece così non va. Capita che su un palco salga chi ha una storia da raccontare e non ha bisogno di aver vinto una medaglia, un Giro o di aver firmato un record. Conta ciò che dice, ciò che è,  che è riuscito a fare perchè ci ha creduto, perchè non ha mai mollato, perchè ha saputo darsi una seconda chanche. Ricominciare è sempre un sogno. Ma bisogna andarseli a prendere i sogni, anche quando sembrano svanire. Ci vogliono tenacia e dedizione perchè oggi sia meglio di ieri. Ci vuole carattere, Lo dice sempre Alex Zanardi e lo ha raccontato anche ieri sera alla Triennale di Milano per gli award di Garmin: “Ho vinto l’oro nella crono di Rio perchè mi sono sporcato le mani, perchè ho imparato a fare il meccanico e l’ingegnere della mia hand bike, perchè non ho mai mollato. E poi ho avuto anche culo…perchè quando uno vince una medaglia per due secondi un po’ ha anche culo…”. Zanardi è Zanardi. Ma non c’è solo Zanardi a raccontare la sua storia. Ci sono tante storie che ti viene voglia di ascoltare. C’è la vita di Simone Baldini che vale più di ogni trofeo, ricominciata a 16 anni quando un virus sconosciuto lo ha inchiodato a una sedia a rotelle, una vita riannodata con la passione che si legge negli occhi, che passa da triathlon, dal Challenge di Roth e chissà da dove ancora. C’è l’accento morbido reggiano di Giovanna Rossi a spiegare a tutti, con l’imbarazzo di chi non è avvezza ai premi, come si possa  iniziare a nuotare, correre e pedalare quando un paio di anni  fa con due barre di titanio nella schiena il rischio era quello di non riuscire più neppure a tenere in braccio suo figlio. C’è Stefano Gregoretti che attraversa i deserti negli angoli più torridi del mondo e poi si emoziona perchè davanti ha suoi idoli, quelli che in tv registrava quando guardava Jonathan.  Come Daniel Fontana che a 41 anni sogna di finire la sua carriera di triatleta al mondiale di Kona dopo averla riacciuffata con la caparbietà di un vero gringo che non si è arreso neppure a un tendine operato due volte. Come Alessandro Fabian, come Giulio Molinari, come Charlotte Bonin che sono il triathlon azzurro di oggi e dei prossimi anni. Come Stefano Baldini che l’oro di Atene lo porta sempre al collo,  ma che non vive nel ricordo e nella nostalgia del Panatinaikò. Come Ivan Basso, più tirato di quando vinceva i Giri,  più determinato di allora nel misurarsi in una maratona che a Venezia ha messo insieme quasi per scherzo. Come Simone Moro, immenso, pragmatico e giurassico come solo lui sa essere:  ” Per andare  prendersi una vetta o un sogno bisogna aver fame – racconta- Ogni minuto in meno di allenamento è un minuto regalato all’avversario. E allora io corro anche 140 chilometri la settimana. La corsa è l’allenamento migliore perchè puoi anche cercarla ma non la trovi mai una scusa buona per non correre. Bastano un paio di scarpe. Chi ha fame corre…” E tiene duro. ” Io ho imparato da mio padre perchè nella mia famiglia uno sport di fatica come il ciclismo era religione- racconta l’ad  Garmin Stefano Viganò– E infatti quando c’erano i mondiali andavamo nella canonica di mio zio parroco a Ranica  a vederli…Poi ho avuto la fortuna di lavorare alla Bianchi al fianco di Felice Gimondi, un mito che mi ha fatto capire che non basta tener duro ma bisogna anche che al tuo fianco ci sia una squadra che ti segue. E con questa questa idea abbiamo lavorato in  azienda.  Dieci anni fa i nostri strumenti  nello sport fatturavano 10mila euro e molti mi chiedevano cosa servisse un gps per correre o andare in bici. Oggi con siamo diventati leader nel running, nel ciclo e nel triathlon…”. E anche questa è una storia da raccontare.