Nino, la boxe e l’Italia che non c’è più
Cinquant’anni fa per i giornali italiani New York era ancora «Nuova York». Anche per Ruggero Orlando, primo e mitico corrispondente Rai. Non c’erano grandi mele, non c’erano reti e neanche i voli low cost.L’America era lontana davvero, mito irraggiungibile e impossibile. Faceva la guerra in Vietnam, contestava, metteva a ferro e fuoco campus e università, si lacerava e si divideva in due. Dieci anni avanti per chi, da queste parti, vedeva a mala pena ancora solo un canale tv e divideva le spese telefoniche con i vicini col «duplex» da pagare alla Sip, gestore unico e assoluto… C’era un’America dove il Ku Klux Klan organizzava veglie di preghiera con le croci in fiamme per mettere al rogo i dischi dei Beatles e c’era un’America hippie che predicava il libero amore e non solo quello. Un mondo lontano che faceva anche a pugni. Che incrociava i guantoni sul ring nei quartieri più malfamati in cerca di riscatto ma che li incrociava soprattutto al Madison Square Garden, tempio di uno sport che allora era arte ma anche incredibile fenomeno di massa, sociale e di moda con spalti gremiti, arbitri in camicia bianca e farfallino e signore impelliciate. Tra luci, spettacoli, manager e star di Hollywood s’era scritta la storia di un Paese. Un Paese che si era innamorato di Joe Louis, di Sugar Ray Robinson, Jake LaMotta di Rocky Marciano ma anche di Primo Carnera, arrivato dal Friuli, lottatore, pugile, campione del mondo e alla fine anche attore in uno show a volte anche un po’ malinconico. Storia di pugni e di titoli mondiali che cinquant’anni fa, il 17 aprile del 1967, toccò a noi raccontare. Alla voce di Paolo Valenti, che divenne famoso poi con quel «Novantesimo Minuto» che oggi è ancora musica e sigla di tante trasmissioni sportive. Al Madison nella sfida che sembra impossibile Nino Benvenuti, il bianco europeo dagli occhi azzurri e dalla lingua lunga perchè per i cronisti americani era troppo sicuro di vincere, sfida Emile Griffith, campione del mondo, imbattibile e terribile. Il pugile delle Isole Vergini che si porta appresso una storia drammatica, la morte, pochi anni prima nel match valido per mondiale dei welter, di «Kid» Benny Paret. Tra i due non corre buon sangue, il cubano ha accusato Emil di essere un «maricon», un omosessuale, e quella gragnuola di colpi che chiude il 12 round, il match e mette fine alla sua vita sembrano a molti una resa dei conti. Così non è. Così non fu. Nel 2005 un documentario sulla storia di quell’incontro «Ring of Fire: The Emile Griffith Story» nella scena finale mostra Griffith che incontra il figlio di Kid Paret, che lo abbraccia e gli dice di averlo perdonato. Anche per questo la sfida del 17 aprile sembra impossibile. Non c’è match. Non ci sono possibilità. La vittoria di Benvenuti viene data a 15, quella di Griffith a 5, che è tutto dire, che nella lingua degli allibratori significa che il finale è già scritto. Ma Benvenuti ci crede. E ci credono anche gli italiani. Molti lo seguono, riempiendo 4 charter che decollano da Roma e Milano, molti sono già a New York, «paisà» che sognano una vittoria, che sperano in un piccolo riscatto, che hanno voglia di sentirsi di nuovo a casa, almeno per una notte. Quindicimila spettatori sugli spalti del Madison, diciotto milioni attaccati con l’orecchio alle radioline perchè il governo italiano vieta la diretta dell’incontro sui canali Rai. Troppo tardi o troppo presto. Comunque sconveniente che un Paese perda il sonno per seguire due che si prendono a pugni. Così è la radio che firma un pezzo della nostra storia. E l’Italia mette la sveglia per non perdersi neppure un round. Gli smartphone non sono neppure un’idea. E allora sono ottomila quella notte le richieste che vengono fatte al «114» per essere svegliati col servizio telefonico di richiamata automatica in piena notte. A Milano un migliaio meno. Ma c’è mezzo Paese collegato, come per Italia Germania-4-3, come per l’ultima serata di un Sanremo, di «Lascia o Raddoppia» o per la finale di Canzonissima. L’Italia è al Madison a fare il tifo per Benvenuti, che diventa «Nino» per tutti e che ha portato tutti dall’altra parte dell’Oceano tra i grattacieli di Manhattan, tra le Avenue e nelle palestre del Bronx dove si è allenato nelle settimane precedenti. Dodici round che vanno via trattenendo il fiato. Griffith va giù alla seconda ripresa, Benvenuti alla quarta, poi di due se le danno come devono. Finisce dieci riprese a 5 per il primo giudice, 9 a sei per il secondo, il terzo non conta. «Nino campione» del mondo diventa il passaparola, diventa un titolo, diventa tutti i titoli di giornali e telegiornali. Sul ring, appena dopo il verdetto, Emile Griffith gli stringe la mano come segno di rispetto. Si chiude solo un pezzo di una storia che poi vedrà ancora due epici match. Il rientro in Italia è un’apoteosi. Sono passati cinquant’anni. Emile Griffit non c’è più, portato via da un alzheimer che gli ha bloccato i reni e Nino invece mercoledì 26 aprile, nel Salone d’Onore del Coni a Roma, ricorderà «L’oro dei Cinquanta». Cinquant’anni e quell’Italia, romantica, patriottica, educata e dolcemente provinciale che non aveva la tv in tutte le case, che non «scialava» e non «chattava» ma che forse sapeva sognare non c’è più. Resta la storia di una sfida che è diventata negli anni una grande, vera amicizia. Benvenuti e Griffith, Nino ed Emile, due uomini che si sono presi a pugni. Ma solo sul ring