Barkley marathon, la sfida di ogni anno
«Ho tutte le mie pagine…». Un uomo sfinito, precipitato per un cinquantina di metri dal costone di una montagna del Tennesse, è rannicchiato per terra che sembra stia morendo. Non si regge in piedi, lo sorreggono la moglie, che è arrivata a soccorrerlo, e un gruppetto di curiosi tra cui si fa largo un «figuro» barbuto con un cappello a tesa larga e uno spolverino di pelle logoro e macchiato di olio. E’ impassibile. Guarda, controlla che i numeri delle pagine sporche e accartocciate che quel poveretto a terra gli mette in mano quasi fossero le sue ultime volontà corrispondano al numero del pettorale che ha sulla schiena, e poi fa un cenno capo. L’uomo a terra ha un sussulto, cerca di fermarlo tirandolo per un lembo del soprabito e poi ripete: «C’era nebbia, sono caduto dalla parte sbagliata della montagna e per risalire ho dovuto nuotare in un fiume. Ma ho finito, ho tutte le mie pagine…».
Gary «Lazarus Lake» Cantrell, l’organizzatore della Barkley Marathon, la gara più assurda e più dura che ci sia sul pianeta che si corre da 33 anni sulle Appalachian Mountains del Frozen Head State Park di Wartburg, una piccola cittadina del Tennesse, è abituato a scene così. Ormai non gli fanno nè caldo nè freddo, anzi. «Questa è una sfida per chi non è sano di mente- ama ripetere- ma li voglio così. Meglio se nessuno arriva al traguardo perchè poi c’è la fila per provarci…».
Una follia. Cento miglia di fatica assurda ma c’è chi dice che siano anche 130, in una natura che dire ostile è dir poco, tra montagne, rocce, rovi e crepacci con un dislivello di 120mila piedi tanto quanto scalare due volte l’Everest. C’è la fila per correrla. E infatti per avere un pettorale bisogna superare i test che Cantrell in persona cambia quasi ogni anno: spiegare, ad esempio, come si individuano i positroni in eccesso nel flusso dei raggi cosmici oppure quanto burro si deve usare per cucinare una libbra di fegato con le cipolle. E non basta. I nuovi, «vergini» li chiamano qui, devono presentarsi con la targa di un auto del loro Paese; i «veterani», quelli che si sono ritirati ma ci riprovano, devono aver con sè la camicia in flanella usata nella passata edizione e gli «ex allievi», i pochi che l’hanno finita, devono arrivare al via con in mano un pacchetto di sigarette Camel.
L’idea che ci si fa è quella di un’armata Brancaleone. In realtà alla Barkley si presentano solo atleti fortissimi, motivati, allenati e capaci soffrire fatiche e pene d’inferno. Anche se poi al traguardo non ci arriva quasi nessuno perché il tempo fissato per concluderla sono 60 ore e non un secondo in più, senza fermarsi, giorno e notte. Tempo e distanze possibili in qualsiasi altra parte del mondo ma non qui. Perché nessuno conosce il percorso, nessuno sa dove deve andare e non sono ammessi navigatori, gps o altre «diavolerie» elettroniche. Cinque giri di tracciato ma gli atleti lo devono trovare seguendo le mappe di carta e il loro senso dell’orientamento fino a raggiungere 5 punti di controllo dove Cantrell ha nascosto dei libri da cui i concorrenti devono strappare le 5 pagine col numero del loro pettorale. Non è previsto il ritiro. Alla Barkley non ci si ritira, ci si «arrende» ed è meglio farlo in prossimità di una strada dove si può chiedere aiuto perché non sono previsti soccorsi. Ti lasciano lì. Ma non si sa neppure quando si parte. Chi deve partecipare arriva nella zona della partenza, pianta la sua tenda, si mette il cuore in pace e aspetta. Aspetta che Gary Cantrell si tolga dal capo il suo cappello da cow boy, si accenda con tutta la calma del caso il suo sigaro Avana e soffi in una conchiglia per dare il via. Quello è il segnale, poi ognuno va incontro al suo destino.
Un inferno e non a caso. Leggenda narra che l’idea di questa maratona per masochisti a Cantrell sia venuta ispirandosi alla storia di James Earl Ray, l’assassino di Martin Luther King, che evase dal carcere di massima sicurezza del Tennessee e in 55 ore di corsa a nei boschi percorse sole 13 miglia, prima di essere catturato. Niente per Gary «Lazarus Lake» che si fece due conti e sentenziò che almeno avrebbe dovuto correrne 100 di miglia. Così organizzò la Barkley, l’unica maratona dove non vince nessuno. O meglio dove vincono in pochi. Pochissimi in realtà.
Dal 1986 a oggi solo quindici sono saliti sul podio e solo il 2 per cento degli iscritti è arrivato al traguardo. Gli unici ad averla vinta due volte sono stati Jarred Cambell, un giovane americano dello Utah di cui poco si sa tant’è che è stato soprannominato «l’ultratleta sconosciuto» a Brett Maune corridore californiano primo nel 2011 e 2012. La settimana scorsa al traguardo non si è presentato nessuno e l’anno prima a vincere è stato John Kelley ma l’edizione è passata alla storia per la clamorosa esclusione del secondo arrivato, Gary Robbins, finito solo sei secondi oltre il limite delle sessanta ore. Nessuna pietà per la sua fatica. È arrivato stremato, ha passato nelle mani di Gary Cantrell i cinque figli dei libri che aveva strappato ma lui non ha battuto ciglio. Ha dato un’occhiata all’orologio, si è calato sulla testa il suo cappello da cow boy e ha girato i tacchi: «Mi spiace, non l’hai finita…».