New York, finita una maratona ne comincia un’altra…
Una maratona va in archivio, un ‘altra comincerà tra 48ore. In una fredda giornata di sole Abdi Nageeye, 35 anni, somalo naturalizzato olandese, ha vinto in 2 ore 7 minuti e 39 centesimi la 53ma maratona di New York davanti ai keniani Evans Chebet (2.07.45) e Albert Korir (2.08.00), mentre il campione olimpico Tamirat Tola, etiope, ha chiuso quarto a 2.08.12. Tra le donne, vittoria alla 33enne keniana Sheila Chepkirui, che ha chiuso in 2 ore 24 minuti e 35 centesimi, davanti alla connazionale Hellen Obiri (2.24.49).
Due vittorie più o meno senza storia decise negli ultimi 400 metri ma senza sprint, in modo netto, dove hanno vinto gli atleti più forti e più freschi che a New York fa più differenza che altrove. Da Staten Island a Central Park, passando per Brooklyn, il Queens, il Bronx e Manhattan: quelli newiorchesi sono i 42 chilometri (e 195 metri) più famosi del mondo. Non è la più antica, non è a più veloce forse neppure la più partecipata ma New York, nell’immaginario di chi corre e di chi non corre, resta la maratona più bella, affascinante e famosa.
Dal 1970, anno della prima edizione, a oggi, il numero degli atleti iscritti è cresciuto in maniera esponenziale, fino a costringere la New York Road Runners, la società sportiva organizzatrice, a stabilire un numero chiuso di pettorali. Lo scorso anno furono 51.453 i podisti provenienti da 148 paesi- che terminarono la gara, un numero record considerando che alla partenza erano stati 52000 e quest’anno la cifra è stata la stessa, un fiume di podisti “sognanti” che hanno invaso a onde il ponte di Verrazzano e poi sono andati alla conquista di Manhattan.
Cinquantatrè maratone a New York, più di mezzo secolo di storia per una sfida che va oltre i 42 chilometri e 195 metri che attraversano i cinque distretti, come le dita di una mano, come sta scritto sui guantini in vendita in tutti i negozi sportivi della città. New York è l’unica maratona che un po’ ti cambia la vita e sicuramente la cambierà a Abdi Nageeye e a Sheila Chepkirui al loro esosrdio sulle strade della Grande Mela e alla loto prima vittoria. “Se vinci da qualche parte del mondo diventi un atleta di primo piano ma se vinci a New York diventi famoso..» racconta ogni volta che glielo chiedono Gianni Poli, un pezzo di storia della nostra maratona, il primo azzurro a scendere sotto le 2ore e 10 minuti sui 42 chilometri, e vincitore nella grande Mela nel 1986. E a Poli, ma anche a Orlando Pizzolato che a Central Park è arrivato a braccia alzate nell’84 e nell’85 e a Giacomo Leone primo nel ’96 la Nycm la vita l’ha cambiata davvero. E non solo a loro.
La vita un po’ la cambia a tutti perchè per un maratoneta correre a New York è il coronamento di un sogno che a volte ti fa nascere e rinascere. O almeno ricominciare. Perchè in quel fiume di gente c’è dentro di tutto, con la corsa che diventa il modo per riscattarsi, per prendersi una rivincita, per dimostrare a se stessi che non c’è difficoltà, sfortuna, malattia o destino contro cui non si possa lottare, combattere e magari vincere. Basta crederci e basta volerlo. New York sono tante storie. Tutte da raccontare.
Per gli “yankees” è uno dei grandi eventi dell’anno, un po’ come il Superbowl, come la finale Nba o quella dell’Us Open di tennis con oltre 200 Paesi collegati, con giornalisti da tutto il mondo, con la telecronaca diretta in oltre 500 milioni di case comprese le nostre con la diretta della Rai che oggi, per la prima volta era orfana della voce in telecronaca di Franco Bragagna e, senza togliere nulla ai telecronisti che lo hanno più che degnamente sostiyuiyo, un vuoto lo lascia. Eccome se lo lascia…Ma la Nycm ovviamente va avanti lo stesso, va al di là di chi la racconta, al di la di chi partecipa anche al di là di chi la vince. Nel 1970 quando l’avventura cominciò al via c’erano 127 podisti.
Sei anni fa sul traguardo di Central Park , l’allora sindaco di New York Bill De Blasio aveva premiato il milionesimo concorrente arrivato al traguardo. Un numero infinito, inimmaginabile che però dà il senso di cosa sia diventata la corsa, di cosa sia diventata questa maratona che per gli americani è la sfida possibile, l’alibi per poi sedersi sulla tavola di un fast food senza sensi di colpa. E così ora corrono in tanti, quasi tutti. Belli, brutti, magri, grassi, giovani e anziani, madri e nonne… New York è la “terra promessa” di un popolo che non vuole avere rimpianti, con la folla sulle strade, i campanacci, le scritte, i sorrisi e i pianti. Con i suoi pettorali che, nonostante costino anche 500 dollari, devono essere contingentati per dare una possibilità a tutti di cucirselo addosso almeno una volta nella vita.
É l’America che conosciamo, che ti dà sempre una possibilità. E la maratona di New York è la vetrina perfetta, la scena ideale per ogni tipo di impresa. Per ricordare, per celebrare, per denunciare, per sostenere una battaglia. Chi vuol far sapere qualcosa al mondo viene a correre a New York. Che è una città che sembra un film di quelli già visti, di quelli che ti danno sempre la sensazione di esserci stato, di esser di casa. Una città che vale il viaggio. Sempre. Ma quando c’è la maratona forse di più. Perchè ogni maratona è fantastica e ce ne sono di fantastiche in ogni angolo del mondo.
Ma poi c’è New York che oggi ha corso, applaudito, si è assiepata con cartelli e campanacci dietro le transenne dal primo all’ultimo chilometro ed ora si prepara a votare, si prepara a scegliere tra Kamala Harris e Donald Trump, tra promesse e paure, tra voglia di rinvigorire l’american dream e la realtà che, tra immigrazione, Fentanil e un costo della vita lievitato come non mai, questo sogno lo ha un po’ offuscato. Martedì si va alle urne, sarà anche quella una maratona. Un’altra maratona…