In fondo cosa chiediamo ai libri? Di offrirci una luce inedita sulle cose. E sulla realtà in cui ci troviamo a vivere. E il classico è quel libro che non smette di brillare. Lo si può prendere e agitare in ogni direzione: riuscirà sempre a far luce su lati o angoli fino a quel momento oscuri.
Quindi abbiamo sempre bisogno dei classici, perché a differenze delle novità, hanno una luce ben sperimentata. Prodotta da un’energia inesauribile. Il fascio di luce perenne illuminerà sempre e quindi renderà comprensibili tutti quei grovigli, angoli e situazioni che di volta in volta cadono nell’oscurità.
Un libro che con ogni probabilità finirà per essere un classico (o quanto meno un titolo di catalogo, sempre buono a ogni rilettura) è La vita in tempo di pace (Ponte alle Grazie). Lo ha scritto un quasi esordiente Francesco Pecoraro che, all’età in cui tutti solitamente vanno in pensione e mettono i remi in barca, è riuscito nell’impresa di offrire al pubblico sempre più sfibrato della narrativa italiana un’opera di forte impatto emotivo, di sicura presa e di alto valore letterario. Un romanzo sul quale vale la pena soffermarsi.
Racconta la vita di Ivo Brandani, ingegnere nato nel ’45, a guerra appena finita. La sua esistenza, però, è improntata a un conflitto perenne. con la realtà, con il mondo interiore, con l’inesperienza, con i sogni e con gli incubi. Come ha scritto Gabriele Pedullà, “è l’irritazione il principale motore della scrittura di Pecoraro. Ma c’è un momento in cui intolleranza e capacità di osservazione convergono e riescono a gettare una luce completamente nuova sullo stato dell’umanità all’alba del XXI secolo”. Forse è esagerato parlare di “umanità”, vero è che le avventure dell’ingegner Brandani corrono in sincrono con l’evoluzione e dissoluzione del nostro Paese. E il suo destino finale assurge a simbolo dei rischi che corriamo come comunità e come Paese. 
Il disincanto, infatti, è l’altra faccia di questo rodimento interiore che consuma Brandani e con lui tutti coloro che riescono ad osservare il nostro declino senza essere acciecati da luoghi comuni e ideologie dominanti.
L’ambizione prima del giovane Brandani era di darsi alla filosofia. Elevarsi con il meglio del pensiero occidentale, farlo proprio e migliorarlo. Poi, però, viene folgorato dalla visione di un ponte sul Firth of Forth a pochi chilometri da Edimburgo. Una costruzione magnifica, un ponte ferroviario tirato su in piena età vittoriana e ancora perfettamente utile e ben inserito nel paesaggio scozzese. E lì immagina il suo futuro farsi carne di un’ambizione grandiosa: essere pontifex. Cioè costruttore di ponti, come i primi sacerdoti romani. Che collegavano il sacro alla vita di tutti i giorni attraverso l’ideazione di riti e la creazione di simboli. Il giovane Brandani guarda il Forth Bridge e rimane ammirato. Unire le due sponde, creare un nuovo paesaggio. Ideare nuove vie, far nascere nuove civiltà. Cosa c’è di meglio?
Poi scoprirà, col tempo, che anche i costruttori di ponti, devono avere a che fare con la corruzione, con la burocrazia, con le piccolezze e meschinità delle economie assistite. Fino a che l’alba di un nuovo millennio non lo porta addirittura a progettare paesaggi succedanei, da costruire e inserire al posto di quelli prodotti in millenni di paziente lavoro dalla Natura stessa e dall’uomo logorati in pochi lustri. 
Un romanzo in cui si racconta l’Italia con occhio sagace e sensibile che sa offrire uno sguardo inedito sul nostro mondo. Valga a mo’ di esempio la sintesi perfetta della romanità nelle opere del Bernini. “Scultore stupefacente in senso letterale, cioè produttore di inarrivabile stupefazione, ma incapace di esprime un qualsiasi sentimento religioso da potersi dire autentico, cioè vero e sentito, Bernini s’era dedicato a supremi gruppi mitologici, a tombe monumentali, ritratti magnifici di uomini potenti. Man mano che Padre gli mostrava quelle opere, Ivo vi percepiva sempre più forte lo spirito della Città di Dio: nessuna disperazione della forma, nessun vero tormento, ma anche nulla che potesse giungergli nel semplice formato di una bellezza serena, equilibrata. Sempre invece quella volontà di stupire con la deformazione, quel velo fatto di inimitabile furbizia tecnica a nascondere un vuoto, una mancanza profonda di adulta e consapevole serietà”.
La parabola di Brandani è paradigmatica. E vive sullo sfondo di una Storia, la nostra, di cui difficilmente ci si può inorgoglire. Dove peraltro, come impara a sue spese il protagonista, “mai pensare che in un mondo di pace, chi si sente un non-combattente non sia lo stesso chiamato a combattere”. Dietro le sovrastrutture e i pensieri dominanti, siamo ancora chiamati a lottare per sopravvivere, per innamorarci, per godere dei beni e delle ricchezze, per non soccombere nella povertà materiale e spirituale e nell’aridità della noia.
Ci voleva un ingegnere, un aspirante pontifex insomma, per rinverdire il filone gaddiano della narrativa nostrana. Senza quei fuochi d’artificio lessicali, quel virtuosismo stilistico tanto caro al Bernini, ma con intelligente pragmatismo. E con un rancore e una intolleranza altrettanto vigorosi.
La via in tempo di pace è tra i migliori romanzi del 2013. Consigliabile, quindi, iniziare il nuovo anno con un libro che riserverà soltanto buone sorprese.

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