Da tempo circola sui social un aforisma che più o meno recita così: “beati i villaggi che hanno uno scemo soltanto”. Mi verrebbe da aggiungere: “beati i villaggi a prescindere”, perché lì il senso della comunità esiste e resiste. E perché l’umanità non è ancora una moneta fuori corso. Gli scemi del villaggio, però, non esistono soltanto nella realtà. Per nostra fortuna si trovano anche nelle pagine dei romanzi. E quando ne incontriamo uno possiamo essere sicuri che in lui l’autore ha riversato un concentrato altissimo di umanità che possa rendere la nostra lettura un momento davvero emozionante e liberatorio.
Di questi matti io ne ho appena incontrato uno. E ne sono davvero riconoscente al suo autore: Remo Rapino. Abruzzese purosangue che da sempre alterna la sua passione per la scrittura con la vocazione per l’insegnamento, Rapino ha raccontato la vita di Liborio Bonfiglio, figlio “sfortunato” del suo tempo, ma testimone esemplare del Novecento. Il libro “Vita, more e miracoli di Bonfiglio Liborio”, edito da Minimum Fax) ha da pochi mesi vinto un premio molto prestigioso: vale a dire il Campiello, che ha voluto consacrare un lavoro appassionato e altamente letterario. Liborio nasce nel 1926 in un paesino abruzzese e dì lì inizia il suo viaggio lungo il secolo breve e lungo lo Stivale, riuscendo a essere un testimone sincero e un cronista efficace di tutti i principali mutamenti che hanno prodotto ciò che noi siamo oggi.
Il suo è un lungo monologo che toglie il respiro. Mai un a capo, mai una pausa. Rapino conosce bene la lezione di Joyce che con il suo eroe “omerico” trapiantato a Dublino ci ha dato un capolavoro inarrivabile di un tessuto verbale teso alle sua massime possibilità. E lo stesso Rapino è solito ricordare che “è più difficile inventare un linguaggio che una storia”. Liborio parla. Parla sempre. Sembra quasi che abbia paura di smettere di parlare perché la sua vita è legata alla sua voce e questa è a sua volta legata alle cose che vede. E la sua anima è anche la sua lingua. Con la poca istruzione ricevuta (ma il libro “Cuore” lo sa praticamente a memoria) e con le sue limitate capacità di distanziamento ironico, Liborio ci regala una lingua viva e vivace. Una lingua che nasce da una tradizione ricca e feconda. La tradizione dei Gadda, dei Testori, dei Volponi, dei Bianciardi, fino a Busi. Una corrente minoritaria se guardiamo semplicemente alla produzione letteraria novecentesca in termini numerici, ma sempre molto efficace e di enorme valore.
Non c’è solo un espressionismo potente nelle pagine che raccontano la vita, i miracoli e la morte di Bonfiglio Liborio. C’è anche un’altra corrente letteraria che ha avuto in Cavazzoni il suo più autorevole esponente ma che ci ha regalato pagine indimenticabili anche nei romanzi e nei racconti di Marco Lodoli. Quella corrente che mette sotto i riflettori della letteratura le vite di personaggi marginali che vivono ai bordi delle comunità. Vite spesso snobbate e dimenticate ma altamente poetiche.
E Liborio di questa schiera è senza dubbio uno dei rappresentanti più vivaci e simpatici.
Il libro è anche adatto a rivedere sotto una prospettiva nuova alcuni momenti chiave della nostra storia collettiva, dal fascismo alla resistenza, fino al boom economico e agli anni di piombo. Il “cocciamatte” assomiglia al bambino della fiaba di Andersen I vestiti dell’imperatore. Offre una visione delle cose prive di sovrastrutture e per questo molto incisiva. Riprendendo così quella lezione che all’inizio del Novecento aveva prodotto i romanzi di Alberto Savinio (“Infanzia di Nivasio Dolcemare” e “La tragedia dell’infanzia”) che vedeva nello sguardo del bambino, ancora privo di sovrastrutture, l’unico modo per cogliere l’autenticità della realtà.
Il libro, pubblicato nel 2019, ha anche un finale molto bello e struggente. Un finale che purtroppo è anche molto attuale. La morte del protagonista avviene in assoluta solitudine. La sua fantasia e i suoi sogni lo aiutano a immaginare una festa d’addio popolata da tutti coloro che hanno incrociato il suo cammino. Eppure viene naturale, leggendolo in questo periodo, andare col pensiero ai tanti che il Covid si sta portando via lontano dagli sguardi amorevoli dei parenti e degli amici. In una solitudine davvero drammatica e il cui pensiero è un peso davvero gravoso nella coscienza degli affetti che non hanno potuto fare altro che lasciarli soli.

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