Sono passati quarant’anni esatti dall’uscita del romanzo Il nome della rosa di Umberto Eco. L’autore e il libro sono stati ampiamente ricordati e celebrati. E non è proprio il caso di aggiungere altro. Mi è tuttavia venuto in mente un fatto che è stato poco considerato. Non soltanto nel corso di queste celebrazioni, ma in generale nella lunga e articolata bibliografia critica del celebre semiologo.
Umberto Eco ha legato il suo nome ad alcuni dei momenti più significativi della critica militante e della letteratura d’avanguardia del Novecento. A torto o a ragione, è stato comunque un protagonista. Ma il suo romanzo più celebre ha anche innescato una delle pagine meno conosciute ma non per questo meno interessanti della vita letteraria dell’ultimo quarto del “secolo breve” nel nostro Paese.
Molti hanno esaltato il suo “esperimento” con il romanzo storico e con il genere del giallo filosofico. Molti hanno apprezzato l’intelligenza e la cultura. Tantissimi, però, hanno soprattutto invidiato (ma a voce bassa) il successo planetario ottenuto dal teorico dell’”opera aperta”. Con la sua opera più chiusa Umberto Eco ha infatti scatenato i peggiori istinti dei migliori scrittori.
Di questa reazione a catena si sa poco. Semplicemente perché non si è chiesto agli editor, ai direttori di collane e agli editori puri, che all’epoca gestivano un settore ancora vitale e florido, di essere pettegoli.
Difficilmente uno storico della letteratura, un giovane dottorando o un giornalista serio e infaticabile chiederebbero a un editore di smascherare debolezze e piccinerie dei propri autori. Semplicemente perché tutti collaborano a un unico obiettivo: fare dei propri ronzini, cavalli di razza. E a caval donato, il lettore non guardi in bocca!
Eppure nei primi anni Ottanta tanti autorevoli scrittori hanno chiesto ai rispettivi editor di fare dei loro romanzi dei bestseller come (se non meglio de) “Il nome della rosa”.
E non sto parlando di quegli scrittori che erano già mainstream, e che anzi per questo motivo venivano snobbati dalla critica più elitaria. Parlo invece degli scrittori con la A maiuscola, quelli che portavano al petto con orgoglio le medaglie dell’avanguardia, della militanza e della critica spietata al Sistema e al canone.
Di un paio di queste (impensabili) richieste sono stato testimone oculare, quando – giovane e ingenuo – frequentavo per motivi di lavoro le case editrici.
Ecco un merito che ancora non è stato riconosciuto a Umberto Eco: aver smascherato alcuni bassi istinti di chi sulle pagine dei giornali radical chic faceva professione di ascesi letteraria ma poi sotto sotto si consumava nell’invidia del successo commerciale del “compagno di strada”.
Peccato che non ci sia memorialistica che racconti di quella reazione a catena. Sarebbe un successone editoriale degno de “Il nome della rosa”.

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