Ciclicamente i giornali confezionano a inizio anno classifiche di tutti i tipi. I migliori alberghi, le canzoni più orecchiabili, le spiagge più belle… Oppure riempiono un inserto con i cento libri da leggere almeno una volta nella vita. E anche quest’anno i lettori di un grande quotidiano si sono baloccati con questa lista. Le singole voci sono state affidate a scrittori giovani e meno giovani. A loro il compito di dare un titolo. Uno solo ma imprescindibile per chi avesse voglia di colmare i propri gap letterari.
Questo particolare tipo di “centone” è un genere sicuramente non nuovo. Lo si ritrova anche in piccoli e agili volumetti che un tempo i ragazzi sfogliavano con ansia di scoprire nuovi capolavori, nuove fonti di piacere e nuovi orizzonti per la propria immaginazione.
Per tornare al giornale di cui sopra, seguire l’elenco dei cento titoli suggeriti mi ha fatto pensare che la mia formazione sia stata, almeno fin qui, sufficientemente ordinaria. Quasi tutti i titoli elencati sono presenti nella mia biblioteca e sono stati da me letti. Non mancano però nomi per me inaspettati come La secchia rapita di Alessandro Tassoni e il Tesoretto di Brunetto Latini. Non perché non siano titoli “esemplari” della nostra storia letteraria ma perché in un elenco molto sintetico da fornire a un lettore indistinto non possono certo competere con romanzi più moderni sia nei contenuti che nelle forme.
Alcuni titoli sono stati comunque per me una sorpresa anche in senso positivo. Non conoscevo, per esempio Juan Rulfo e Bruno Schulz. E le brevi schede proposte sui loro capolavori ( La pianura in fiamme e Le botteghe color cannella) sono già entrate nella mia lista dei desideri.
In fondo basta poco per rendere un titolo un “imperdibile”, basta l’autorevolezza di un inserto letterario di un grande quotidiano, magari anche la firma che si legge in calce al breve ma illuminante consiglio, per non dire della serietà della casa editrice e della collana (ancora, se pur non come in passato, garanzia di qualità).
Ma questa trasformazione di un consiglio in un “classico in contumacia” è una pratica che ritroviamo anche nella vita di tutti i giorni. Se chi consiglia è agli occhi di chi è consigliato autorevole al punto giusto il libro diventerà una dolce ossessione. Nel mio caso è lo stato il Pushkin dell’Eugenij Onegin. Mio zio, gran lettore, si era messo a studiare il russo soltanto per il gusto di leggerlo in originale. Questa cosa mi ha colpito più di un consiglio o di un ordine. E mi fa venire in mente che un nostro scrittore apprezzato dalla critica e dal pubblico (nonché vincitore del Premio Strega) ha iniziato da qualche giorno a sfruttare Twitter come una bacheca dove apporre quotidianamente un consiglio di lettura. La sua auctoritas ha già fatto del suo impegno sui social un appuntamento imperdibile per molti e ogni titolo riportato (soprattutto quelli meno conosciuti) è subito divenuto oggetto di dibattito se non del desiderio di molti. Tra i tanti titoli suggeriti, il noto scrittore ricorda anche Pietroburgo di Andrej Beliy (Einaudi). “Scrittore, poeta e ballerino di fox-trot – ricorda nel tweet Sandro Veronesi -. Io non riesco nemmeno a concepire che si possa vivere senza aver letto questo romanzo. O anche solo la prefazione di Ripellino”. Il successo del tweet è nel numero dei commenti che lo accompagnano e delle condivisioni. Semplice, diretto, incisivo (come un’efficace campagna pubblicitaria), il tweet d’autore può fare molto e può conquistare il terreno perso da giornali e riviste letterarie nel “dibattito letterario”. Segno dei tempi, si potrebbe dire.
E intanto immagino un altro tipo di “centone”. Magari più agile e più snello che ogni lettore potrebbe provare a redigere. Un piccolo (o grande) elenco dei libri che ancora non sono stati letti. Libri la cui assenza viene giudicata un gap. Titoli la cui fama costituisce già di per sé un punto importante del nostro bagaglio culturale.
Un elenco difficile da rendere pubblico. Lo so bene. Eppure stenderlo e presentarlo potrebbe essere un atto liberatorio. Io, per parte mia, so bene che i titoli che potrei presentare sono tantissimi. Troppi. Per fortuna la massima socratica (sapiente è colui che sa di non sapere) è sufficientemente consolatoria. E questo basterebbe a chiudere qui il discorso. Resta il fatto che alcuni di questi libri non letti, rappresentano comunque un’ossessione che ci portiamo sempre dietro (quando entriamo in libreria, quando sfogliamo i dorsi sui nostri stessi scaffali di casa, quando siamo ospiti di amici). Alcuni sembrano dirti: “non puoi fare a meno di me”, altri più malignamente ti ricordano le citazioni che altri hanno fatto in tua presenza.
Se i titoli che ancora non ho letto sono troppi anche solo da numerare, le ossessioni non sono poi così tante. Tra queste ha un posto di rilievo L’uomo senza qualità di Robert Musil, troppe volte l’ho sentito citare in quel ristrettissimo numero di capolavori del Novecento per non tenerlo lì come ossessivo monito. Stesso discorso per Kaputt di Curzio Malaparte. I commentatori hanno sempre indugiato sulla crudezza di certe immagini, e questa cosa finora mi ha portato a credere di non aver a disposizione un tempo tanto leggero e svagato da essere un adeguato contrappeso alla sua lettura. E poi ancora altri “minori” del nostro Nocevento come Silvio d’Arzo o Guido Morselli, per non parlare del “nostro” Joyce (con il suo capolavoro, Horcynus Orca, letto soltanto nei brani antologizzati).
Secondo me un simile elenco potrebbe avere la stessa dignità di una piccola guida letteraria. Perché i titoli hanno un richiamo molto forte per noi e sicuramente rispettano un canone o, nel migliore dei casi, quello stesso canone lo distruggono per ricostruirlo. In fondo siamo noi ad averli eletti a classici, noi con i nostri sensi di colpa.

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