Se Montaigne fosse nato nel 1970 a Roma e avesse passato la sua infanzia al Portuense, forse oggi sarebbe l’autore di un felice romanzo autobiografico molto autoironico e scanzonato, pieno di amore per la “Maggicaa”, magari con veloci escursioni nell’epica del calcio, ricordando eroiche trasferte a bordo di macchine scassate con una scorta inesauribile di panini con la frittata a sentire i grandi che piangono e ridono e bestemmiano di paura e di gioia. E tutto questo con una lingua controllatissima. Di un’eleganza davvero fuori dal comune. Degna del miglior Racine (ovviamente nato anche lui sotto le Alpi).

Come Montaigne anche il protagonista di La gioia fa parecchio rumore (Einaudi) parte dall’io per offrirci un bellissimo affresco di un periodo irripetibile per chi ha avuto la ventura di nascere e vivere nella Capitale.

Sandro Bonvissuto, questo il nome dell’autore, confeziona un perfetto “romanzo di formazione” sfruttando la metafora dell’amore per una squadra di calcio. Il piccolo protagonista scopre cos’è l’amore, quindi cos’è la vita, il giorno in cui la bandiera giallorossa diventa il paradigma di ogni cosa, non una ragione di vita, ma la vita stessa.

La storia copre un arco di tempo pari all’infanzia. E si chiude proprio all’alba dell’adolescenza. Con due momenti che diverranno nel tempo le pietre miliari della storia interiore del protagonista (e visto che parliamo di calcio è facilmente intuibile che parliamo di una vittoria e di una sconfitta).

Se mi sono permesso di inserire questo titolo (uscito soltanto un anno fa) in un blog che parla di classici e di long seller è dovuto al fatto che il romanzo non si limita a celebrare un’educazione sentimentale, bensì regala dello sport più amato al mondo una visione affatto nuova e dunque illuminante. A questo scopo serve ovviamente lo sguardo analitico di un filosofo (l’autore si è laureato con una tesi su Merleau-Ponty), ma anche l’innocenza degli occhi di un bambino (come insegnava un secolo fa Alberto Savinio). Gli unici capaci di offrire una visione davvero essenziale dello spettacolo perché ancora incorrotti da sovrastrutture e pregiudizi. A questo scopo Bonvissuto fa sua anche la lezione di un altro scrittore filosofo (Robert Pirsig) inserendo un personaggio (Barabba) che ricorda lontanamente il Fedro de Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta. Il protagonista lo incontra al fondo della “buca”, quella terra di nessuno tra gli ultimi palazzi della periferia e la ferrovia. Un personaggio che vive ai margini dormendo in un camper scassato e usando una vecchia auto arrugginita come “cattedra”. Il piccolo protagonista pende dalle labbra di questo barbone con la passione dei numeri e della cabala. Ed è dalle sentenze di questo personaggio che il piccolo parte per costruire la sua personale visione del mondo.

E il calcio diventa un’efficace metafora di questo mondo. Ecco perché mi sento di consigliare questo libro a chi ama questo sport. Adatto soprattutto ai giovani perché capiscano cosa stanno facendo quando guardano una partita in tv o allo stadio, “l’unico luogo al mondo dove puoi vedere insieme gente che prega e gente che bestemmia, felice e triste, chi vuole vivere con chi vuole morire. L’amore è un animale randagio e stanziale, lo stadio è senz’altro un buon posto per lui”.

E se ci si trova davanti all’ormai sempre più frequente roulette dei calci di rigore è utile tornare alle parole di Bonvissuto che lo definisce un “epilogo posticcio di qualcosa che deve per forza finire con un vincitore e un vinto, emblema di una sorte svogliata che non ha avuto desiderio d’intervenire, di un destino distratto a cui si pone rimedio artificialmente, con un evento che celebra solo la drammatica fragilità della condizione umana”.

Da esempi del genere si vira poi spesso verso un tasso poetico alto. Come quando parla della bandiera (“era stupenda, era più bella del cielo che copriva. Era uno schiaffo al più umiliante dei mali dell’uomo: la neutralità”).

Questo bambino riuscirà a vedere i miracoli, a essere testimone di fatti inspiegabili e trasferirà all’adulto la forza di quelle immagini che l’adulto saprà tradurre con rara efficacia in parole indimenticabili (“Non c’è niente che sappia colmare il cuore e fugare i fantasmi come il tempo bello, che regala all’uomo una gioia antica e gratuita che gli permette di accettare il tramonto di ogni cosa. Anche di sé stesso”). A questo proposito Maurizio Crosetti su Robinson parla di un “miracolo riuscito”. Perché Bonvissuto è stato capace di “dire quello che hanno detto in tanti – il tifo bambino, i riti tribali da stadio, l’iniziazione maschile, le figurine, la bandiera – come non lo ha detto nessuno: con una grazia romantica e stupefatta, una specie di pianto antico dove ogni lacrima brilla nel buio come una perla”.

Anche l’ironia (e soprattutto l’autoironia) è controllata con grazia e rigore. Non eccede e non trasforma il romanzo nell’ennesima versione di Febbre a 90° di Nick Hornby. Nei rari sprazzi di ironia Bonvissuto però regala perle indimenticabili. Come quando parla del tragico destino di essere eternamente secondi (“Eravamo destinati a essere la squadra che sarebbe arrivata più volte seconda. E in quella classifica di eterni secondi, che era una competizione nella quale sarebbe stato proprio il caso di arrivare secondi, saremmo arrivati sempre primi”).

A mia memoria, poi, non credo ci sia mai stato spazio nella letteratura per la figura del “lanciacori”. Categoria questa che andrebbe studiata con cura da psicologi e sociologi. E che anche gli scrittori dovrebbero prendere in considerazione. Credo Bonvissuto sia il primo a farlo con grazia ed empatia. E solo la descrizione di questa figura vale il prezzo del libro.

“I lanciacori sono sempre spalle al campo. Una squadra ce l’hanno eccome, ma la partita non la guardano. Sono talmente romanisti che rinunciano. Fanno del bene, ma non come può farlo un medico, perché chi ti cura non ti dona la sua salute. Piuttosto come chi lascia a un altro il posto sulla scialuppa mentre la nave affonda. I lanciacori sono eroi di guerra senza guerra. Si sacrificano ogni domenica, sono eroi settimanali. E si sacrificano della più alta e nobile forma di sacrificio, perché la partita che gli avviene alle spalle loro non la vedranno mai. E poi magari muoiono vecchi, in una casa sulla Prenestina. Se esiste il paradiso i primi che dovremmo incontrare sono proprio i lanciacori; tra le tante figure della nostra religione quegli angeli spiccano luminosissimi. E anzi, sarò veramente contento quando avrò un lanciacori tutto per me, che mi segue ovunque e mi sostiene fino alla fine. Daremmo più filo da torcere al destino, se tutti avessimo un lanciacori”. Altro che angeli custodi! Abbiamo bisogno di lanciacori!

 

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