Dopati, beccati e anche un po’ livorosi. Così è un attimo (e non costa nulla) seminare  sospetti e veleni. Mettere nel calderone del ciclismo dei dannati, ma ovviamente senza far nomi, atleti, tecnici, massaggiatori e genitori. Tutti al corrente di tutto ma tutti con la bocca  cucita in una difesa a riccio di un sistema che non vuole cambiare. Il copione è sempre lo stesso ed è un po’ squallido. E non cambia neppure leggendo oggi l’intervista della Gazzetta dello sport  a Riccardo Riccò http://www.gazzetta.it/Ciclismo/27-12-2017/ricco-io-appestato-faccio-gelati-passione-ma-bici-torno-240508943128.shtml che dopo una serie quasi infinita di squalifiche, dopo aver rischiato la pelle per un’autoemotrasfusione ora fa il gelataio a Tenerife ma tra una decina d’anni sogna di tornare a correre.  Domande e risposte ma senza scuse. Ce ne sono tante di parole, molte fuoriposto, ma la parola scusa non c’è mai. E invece dovrebbe esserci perchè,  vale sempre la pena di ricordarlo, il doping è una scorciatoia, un truffa, una porcheria.  E’ la strada più veloce per arrivare in alto anche se poi spessso si cade fragorosamente. Di campioni di doping ce ne sono stati tanti e tanti ce ne saranno perchè lo sport non è diverso dalla vita dove di furbi che saltano le code è pieno. Però l’equazione dopato-campione non è perfetta. Tant’è che è pieno di asini dopati che tali restano anche se imbottiti di additivi. E ciò nonostante ci siano recenti esperimenti che provino a dimostrare il contrario, cioè quanto farmaci et similia siano in grado di migliorare le prestazioni. Anche degli asini. Ma gli asini restano. Soprattutto quelli che si dopano a cinquant’anni per vincere il trofeo del paese, il prosciutto, per battere gli amici, per fare i fenomeni al bar. Gente bacata. Gente che prende lo sport di traverso e rischia di farlo andare di traverso anche ad altri, magari anche ai figli. Perchè i figli imparano cioò che vedono, ascoltano, respirano.  E questo è il male maggiore. C’è poi un’altra certezza che riguarda il doping e non solo il doping. Da Armstrong in avanti anche nelle inchieste di doping  sono apparsi i pentiti. Non mi sono mai piaciuti i pentiti. Perchè sono un’ammissione di debolezza. Sono una resa. Quando uno Stato, un tribunale, una federazione si affidano a un pentito per venire a capo di cose che dovrebbero essere capaci di risolvere normalmente con altri strumenti non è mai un bel segnale.  C’è un vizio fondamentale nella confessione di un pentito, un peccato originale: la contropartita. Chi si pente in genere non lo fa perchè mosso dal rimorso o per tornare in pace con la propria coscienza.  Solo per calcolo. Racconta una verità, la sua verità, perchè in cambio vuole qualcosa, generalmente uno sconto di pena.  Nel caso del ciclismo o dell’atletica un pentito confessa solo perchè spera in uno sconto di pena e di tornare a gareggiare. E già questo è un limite enorme.  Ma nell’intervista di Riccò non si legge neppure questo. E allora la domanda sorge spontanea: ma a chi giova?