I New York Road Runners, dopo un vertice con i funzionari dello Stato, della città e con i responsabili sanitari statunitensi, hanno annunciato che il 7 novembre si correrà la 50esima edizione della  maratona di New York.  Ed è un annuncio che aspettavano un po’ tutti, non solo i maratoneti. La sensazione è che se tra sei mesi trentatremila atleti saranno al via sul ponte di Verrazzano il peggio sarà alle spalle. Che se si corre a New York poi si potrà correre ovunque. Che se si ricomincia qui si può ricominciare in ogni altro luogo del mondo e che i conti con il virus saranno finalmente regolati.  Già perchè la maratona di new York non è solo una maratona. Nel 1970 quando l’avventura cominciò al via c’erano 127 podisti.  Qualche anno fa  sul traguardo di Central Park il sindaco di New York Bill De Blasio aveva premiato il milionesimo concorrente arrivato al traguardo. Un numero infinito, inimmaginabile che però dà il senso di cosa sia diventata questa corsa, di cosa sia diventata questa maratona che non sarà la più bella e la più antica ma per gli americani e non solo per loro  è la sfida possibile,  è il totem che ognuno pone in cima ai suoi sogni e alla sua volontà. New York è la “terra promessa” di un popolo che non vuole avere rimpianti: così la pensano gli americani, così hanno cominciato a pensare tutti quelli che atterrano qui da ogni spazio del mondo per correre 42 chilometri che poi racconteranno a figli e nipoti. Ed ogni anno c’è un ottimo motivo per esserci. Così andò dopo l’attentato alle Torri Gemelle, così dopo quello di Boston e così andrà il prossimo 7 novembre. Punto e a capo. Si ricomincia e si ricomincia proprio da New York con un “io c’ero” che avrà il sapore speciale di un ritorno alla normalità che forse solo in questo anno abbiamo imparato ad apprezzare.  Trentatremila atleti che, prendendo in prestito le parole del direttore di gara Ted Metellus, “metteranno in mostra la forza, l’ispirazione e la determinazione della nostra grande città”. Ci sarà la fila. Ci sarà la corsa per essere presenti dopo che lo scorso anno anche la New York City Marathon aveva alzato bandiera bianca al cospetto di una pandemia che, dopo aver messo in ginocchio Cina ed Europa, metteva con le spalle al muro anche gli States.  Così è andata. Il mondo si è preso una pausa in attesa di tempi migliori. Che non è ancora detto  che siano arrivati ma se il 7 novembre trentatremila persone dopo essersi commosse ascoltando l’inno americano quasi per magia cominceranno a correre significa che “a nuttata” è  passata. Correre a New York è il coronamento di un sogno che a volte ti fa nascere e rinascere. O almeno ricominciare. Perchè in quel fiume di gente c’è dentro di tutto, con la corsa che diventa il modo per riscattarsi, per prendersi una rivincita, per dimostrare a se stessi che non c’è difficoltà, sfortuna, malattia o destino contro cui non si possa lottare, combattere e magari vincere. Basta crederci e basta volerlo.  New York sono tante storie o forse una storia sola.  Ma mai come questa volta vale la pena di raccontarla.