Scortato da una pattuglia acrobatica di aerei, Jonas Vingegaard ha sfilato ieri su una decappottabile per le vie di Copenaghen e poi si è affacciato davanti a 25 mila persone  in festa dal balcone del municipio della capitale danese. Fa effetto vedere il 26enne campione della Jumbo-Visma  davanti a tanta folla, accolto come un re. Fa effetto e fa anche un po’ riflettere perchè,  al di là dei raffronti e al di là di ciò che accade alle nostre latitudini dove siamo soliti festeggiare con eguali bagni di folla solo gli scudetti , la festa di Copenaghen spiega quale sia il senso di Vingegaard e dei danesi per lo sport. La prima cosa che il due volte vincitore del Tour ha fatto sapere ai suoi connazionali non è che sogna di fare tris a Parigi, di vincere un mondiale, una classica monumento o chissà cos’altro ancora. No. Il più grande desiderio per la prossima stagione è partecipare con la nazionale danese ai Giochi di Parigi. “Mi piacerebbe davvero correre alle Olimpiadi- ha annunciato all’agenzia danese Ritzau – Ho detto all’allenatore della nazionale Anders Lund che se vuole che vada, io sono pronto anche se non è un percorso che mi si addice perfettamente. Ci sono molti ciclisti danesi di talento, quindi potrebbe non selezionarmi…”. E detto da uno che da due anni domina la corsa più importante al mondo, che potrebbe anche non chiedere, che potrebbe anche un po’ pretenderlo suona come un bel gesto d’umiltà.  E infatti a stretto giro di posta è arrivata sulle pagine del quotidiano Ekstra Bladet la risposta del ct danese: “È meraviglioso sentire l’entusiasmo di Jonas- ha spiegato Lund- e per quanto mi piacerebbe vedere il nostro campione del Tour de France indossare i colori nazionali, non posso ancora garantirgli un posto”. Insomma dovrà sudarsela. Ma così va lo sport in molti altri Paesi più avvezzi del nostro a partecipare, ad identificarsi nelle nazionali, a rispettare maglie, storia, simboli. E le olimpiadi restano il simbolo per eccellenza, nonostante il business, gli sponsor, il marketing, la politica, il professionismo, i diritti televisivi e via elencando.  Per chi cresce facendo sport l’Olimpiade è il sogno, il punto d’arrivo, la gara di tutte le gare, la ragione di una vita sportiva e basta aver la fortuna di  far due chiacchiere con Antonio Rossi o Stefano Baldini per capire di cosa si sta parlando. Non sempre però. Così se in Danimarca c’è un ragazzo che vince due volte il Tour e si mette umilmente in coda per strappare il biglietto verso Parigi, anni fa dalle nostre parti nel tennis c’è stato chi ai Giochi rifiutò di andarci. Per carità il “no” di Yannick Sinner fu ampiamente  motivato, giustificato da un periodo di scarsa forma, spiegato con la necessità di seguire un percorso di crescita che lo portava su altre strade e su altri campi ma fu pur sempre un no. E l’ipocrisia la spazzò via un sempre grandissimo Adriano Panatta.  “Se ti chiamano alle Olimpiadi ci devi andare a piedi- commentò allora- È inutile girarci intorno nel tennis c’è poca cultura delle Olimpiadi. Se chiedi a qualunque tennista se preferisce vincere l’oro olimpico o un torneo del Grande Slam, senza dubbio risponderebbe l’ultima”. Ma forse non c’entra il tennis, è più un fatto di educazione sportiva, di cultura, di sensibilita: perchè non è che la vittoria di un Tour de France valga meno di quella del Roland Garros…