Massimo Doris: “La prima bici? Tutto è cominciato da lì…”
Di padre in figlio. Perchè questa è la storia e sarà il futuro dell’impero creato da Ennio Doris che ora è nelle mani di Massimo, 49 anni da pochi giorni, due figli e dal 2008 amministratore delegato di Banca Mediolanum. Una storia «costruita intorno a te», ma soprattutto intorno alla famiglia e ai valori che oggi sono spesso in discussione. Passo dopo passo, con la dedizione che serve e con la convinzione che non ci siano persone portate per fare qualcosa ed altre no. La differenza la fanno sempre l’impegno e la passione.
È questo l’insegnamento che le ha dato suo padre?
«Mio padre mi ha insegnato il senso del dovere e quello del rispetto, che vanno sempre di pari passo. I miei genitori mi hanno cresciuto così e mia moglie ed io stiamo cercando di fare la stessa cosa con i nostri due figli. Per me mio padre e mia madre vengono prima di tutto. Non prima della mia famiglia, ma prima di me».
Poi le ha passato il testimone in azienda.
«Sì, è stato un passaggio graduale che ha portato un bel cambiamento nella mia vita e che ha aumentato la responsabilità e anche lo stress. Ora le persone che mi stanno accanto si aspettano che io abbia sempre una risposta pronta per tutto».
Come si dice oggi ora la faccia ce la mette lei, anche in tv.
«Sì, il nuovo spot di Banca Mediolanum ora lo faccio io, però se ha notato ad un certo punto c’è ancora la voce di mio padre…».
Che significa?
«Significa che io gestisco l’azienda, ma che lui c’è ancora. È qui ogni mattina e ancora ci confrontiamo. Diciamo che c’è la sua supervisione».
Per lei una presenza ingombrante o un punto di riferimento?
Non c’è dubbio, un punto di riferimento».
Una garanzia per la continuità di una storia che non si interrompe?
«Esattamente così. Anni fa molti si chiedevano che fine avrebbe fatto la banca nel giorno in cui Ennio Doris avesse lasciato. E il fatto che io oggi sia qui è sicuramente una risposta che ha dato tranquillità che ciò che abbiamo fatto in tutti questi anni continuerà nella stessa direzione. Che non ci saranno cambiamenti nei confronti dei nostri dipendenti, della nostra clientela, di chi lavora con noi».
Quindi ora le luci degli uffici le spegne lei?
«Sì, questa è una vecchia storia. Mio padre è cresciuto in una famiglia povera, abituata a vivere con ciò che c’era, e allora non era molto, e a far sacrifici. Quando si è sposato con mia mamma non avevano neppure i soldi per comprarsi una casa e quindi per i primi anni furono costretti a vivere con i miei nonni. Ed erano case di contadini».
E quindi?
«Quindi ha sempre dato il giusto valore alle cose e soprattutto ha sempre avuto un gran fastidio per gli sprechi. Al lavoro, per responsabilità e ruolo, era sempre uno degli ultimi ad uscire e così si faceva il giro degli uffici per vedere se erano rimaste luci accese e le spegneva».
E lei fa lo stesso?
“Sì, ma non lo faccio tanto per fare o perché mi hanno insegnato così. Il fastidio per lo spreco è qualcosa che appartiene anche a me. E quindi, prima di andar via, un giretto per gli uffici della presidenza lo faccio anche io».
Niente sprechi e attenzione al denaro…
«Sì, mio padre mi ha insegnato anche questo, perché nella sua famiglia tanti anni fa erano importanti anche i centesimi. Mai fare debiti, se non per comprare una casa. Ora è semplice, quando ero più giovane meno. Mi ha ripetuto sempre che quando ha iniziato a lavorare, dopo un po’, visto che era tra i più capaci, guadagnava in provvigioni molto più di alcuni suoi colleghi. Che però giravano con auto molto più lussuose della sua. Lui invece spendeva sempre molto meno di ciò che guadagnava e alla fine i conti gli sono tornati».
Tutti conoscono suo padre, pochi sua mamma.
«Beh, intanto è la mamma. Nella nostra famiglia sicuramente una figura più importante di mio padre. Credo sia normale, lo vedo anche con i miei figli. Sì, il papà c’è, ti ascolta, ti fa giocare, ma poi, quando c’è un problema vero, i miei due ragazzi cercano mia moglie. Mia mamma c’è sempre stata. Sempre presente e sempre completamente dedicata alla famiglia. E quando i figli sono cresciuti si è dedicata a mio padre. Oggi lo segue ovunque e lui è felicissimo di questa cosa. Dove va l’uno va l’altra».
Mamma presente e nonna presente?
«Più presente come mamma devo dire. Visto che è sempre in giro con mio padre. Come nonna fa il possibile, certo non è facile dividersi tra sette nipoti».
E lei ai suoi figli cosa sta insegnando?
«Soprattutto a desiderare le cose, come è successo a me».
Essere il figlio di Ennio Doris non le ha facilitato la vita?
«In un certo senso sì, però mia madre e mio padre le cose me le hanno sempre fatte desiderare. Non ho mai trovato tutto fatto».
Come la prima bicicletta…
«Sì, è cominciato tutto da lì».
Cioè?
«Avevo otto anni e quello era, come per tanti bambini, il sogno della mia vita. Anche perché mio padre è sempre stato appassionato di ciclismo e io passavo i pomeriggi in taverna a guardare la sua bici da corsa. Ne volevo una e continuavo a chiedergliela».
E suo padre?
«Più gliela chiedevo più non me la comprava. S’era inventato la storia che me l’avrebbe regalata quando sarei arrivato all’altezza della sua spalla. E un giorno sì e l’altro pure allargava il braccio e mi misurava. Io mi mettevo in punta di piedi ma niente. Lui è parecchio alto».
Finché un giorno…
«Finché un giorno, quando ormai avevo perso le speranze e soprattutto avevo smesso di chiedergliela, con la scusa di comprare una bici a mia madre mi chiese se l’accompagnavo a Castelfranco Veneto da un negoziante che si chiamava Rebellato».
E gliela comprò?
«Sì, è stato uno dei giorni della mia vita che non dimenticherò. Poi non vedevo l’ora che arrivasse la domenica mattina per andare con lui a pedalare».
Salita o pianura?
«Salita. Sempre in salita. La bici è bella in salita perché è lì che si vedono i campioni e si scrivono le grandi imprese. Pedalavo e chiedevo a mio padre che rapporto avrebbero usato Coppi o Bartali su quella strada. Lui mi rispondeva da esperto, ma era ovvio che non lo sapeva. L’ho scoperto dopo. Ricordo solo che facevo una gran fatica».
Quindi se vale la regola Doris vanno in bici anche i suoi figli?
«No, questa “malattia” per ora non sono riuscito a trasmetterla».
Però fanno sport.
«Sì, molto. Amano gli sport di montagna, che è l’altra mia passione, come lo snowboard e lo sci. Mio figlio poi è nella squadra della sua scuola di lacrosse, una disciplina americana simile all’hockey che però si gioca con altre regole ed altri attrezzi su campi di erba».
Quindi storia di famiglia per una banca di famiglia. Ma il modello funziona ancora?
«Fino a qualche tempo fa la tradizione e il legame con il territorio erano un valore. Poi sono saltate proprio le banche territoriali. Credo che ciò che conta sia la trasparenza e fare bene il proprio mestiere».
Il sistema bancario italiano scricchiola?
«Sì, lo dicono i dati. Però bisogna fare due considerazioni: la Germania per salvare il proprio sistema bancario ha speso 247 miliardi, l’Inghilterra 150, l’Italia ne ha spesi quattro».
Un quadro difficile che sta portando molti italiani a rimettere i risparmi sotto i materassi?
«Capisco i timori dei risparmiatori. Negli anni scorsi in Europa e in Italia la politica delle banche è stata quella di fare grandi aumenti di capitali per cercare la solidità. Ma si sapeva che sarebbe arrivato il momento che non ci sarebbe più stato intervento statale. Quindi era importante muoversi prima e diversamente».
Se avesse 10mila euro da investire oggi li metterebbe in banca o si comprerebbe una bici da corsa?
«Se avessi solo quelli li metterei in banca, come mi ha insegnato mio padre».
Non ha paura che il vento possa girare?
«Sempre, ci penso tutti i giorni. Ci vuole un attimo a perdere ciò che si è fatto».
E per evitare che accada, cosa le hanno insegnato?
«A tenere bene gli occhi aperti».